
14/04/2025
Il travisamento specialistico della prevenzione e il tradimento della medicina generale
In Italia, la cultura della prevenzione è stata progressivamente distorta da un’interpretazione prestazionale e consumistica del concetto stesso di “controllo”. Sempre più spesso, cittadini sani e asintomatici si rivolgono direttamente allo specialista, in regime privato o assicurativo, nella convinzione, profondamente radicata, che esista una forma di prevenzione superiore, una tutela aggiuntiva, una sicurezza “in più” rispetto a quella garantita dal medico di medicina generale e dagli screening raccomandati a livello nazionale.
Ma quella che dovrebbe essere una medicina personalizzata, basata su rischio e contesto, diventa così una medicina standardizzata e ripetitiva, spesso inutile, talvolta dannosa. Uomini sani con PSA normale e nessun sintomo urologico si sottopongono ogni anno a visite specialistiche “di controllo”. Donne con un Pap test negativo, senza alcun sintomo ginecologico, vedono il ginecologo ogni 12 mesi senza che vi sia alcuna indicazione. Pazienti senza segni o sintomi di patologia cardiovascolare vengono indirizzati al cardiologo solo “per sicurezza”. Questa abitudine, largamente diffusa e culturalmente accettata, non solo genera un sovraccarico del sistema privato e una distorsione dell’agenda sanitaria individuale, ma tradisce il senso profondo della medicina di iniziativa: quella che anticipa la malattia senza inventarla.
Il problema non è soltanto organizzativo. È etico e culturale. Perché di fronte a una visita che non ha un vero razionale clinico, lo specialista spesso non interrompe il percorso, non spiega al paziente che in assenza di sintomi e fattori di rischio non è necessaria alcuna valutazione specialistica. Anzi, per giustificare la parcella o per timore di perdere il paziente, o forse semplicemente per abitudine, molti specialisti trascinano la visita sul terreno della medicina generale.
E allora proliferano le prescrizioni inappropriate: statine iniziate senza alcun calcolo del rischio cardiovascolare globale, screening per l’osteoporosi in donne senza fattori di rischio clinico né indicazioni da linee guida, esami di laboratorio aspecifici, ecografie addominali o tiroidee in assenza di sintomi, che spesso portano al riscontro di incidentalomi (noduli tiroidei, angiomi epatici, cisti ovariche) destinati a innescare una spirale ansiogena di controlli, esami di secondo livello e, in alcuni casi, anche interventi non necessari.
Così la medicina specialistica si ritrova ad alimentare una medicalizzazione della normalità. E il paziente, rassicurato dal “tutto a posto”, viene intrappolato in percorsi annuali di follow-up per condizioni clinicamente irrilevanti. È un paradosso perfetto: si moltiplicano gli esami per dimostrare che non serve farne altri. Ma intanto, l’attenzione sanitaria si concentra su noduli benigni, millimetri di crescita, curve glicemiche appena mosse, in un esercizio tautologico che assorbe risorse, genera ansia e produce zero benefici reali in termini di morbilità e mortalità.
Nel frattempo, molti specialisti finiscono per deskillarsi: abituati a gestire banalità, perdono familiarità con la patologia complessa e diventano sempre meno capaci di svolgere il ruolo per cui sono stati formati. Si assiste a un lento, ma tangibile slittamento verso la medicina generale, ma senza la cultura della medicina generale. Senza la visione d’insieme, senza il filtro della selezione clinica, senza la capacità di tenere conto della storia del paziente, del suo contesto, del suo rischio cumulativo.
Questa tendenza è figlia di un sistema che premia la prestazione e non il pensiero clinico. Ma è anche responsabilità nostra, come categoria. Gli specialisti dovrebbero avere l’autorevolezza di dire: “Non serve un consulto specialistico in assenza di indicazione clinica. Ne riparliamo se ci saranno sintomi o segnali di allarme. In questo momento è più utile che lei continui il follow-up con il suo medico di medicina generale”.
E i medici di medicina generale, a loro volta, dovrebbero sentirsi legittimati a ribadire che la prevenzione non si fa accumulando visite, ma applicando buone pratiche, con giudizio e proporzionalità. Dovremmo trovare la forza di contrastare la cultura del “meglio un controllo in più”, che spesso è solo il modo elegante di dire “ho paura, ma non so di cosa”. Perché la medicina non è rassicurazione a pagamento. È cura della salute, e richiede coraggio, misura, competenza.
Oggi, in un sistema che premia chi prescrive e punisce chi pensa, è sempre più difficile essere razionali. Ma è necessario. Non possiamo più tollerare che si confonda l’appropriatezza con la negligenza, la sobrietà con la superficialità, l’alleanza terapeutica con la compiacenza. E non possiamo accettare che la medicina generale sia continuamente svuotata del suo ruolo, mentre intorno a essa si costruisce una medicina specialistica che fa le sue veci senza averne gli strumenti, la visione, l’esperienza.
Fare medicina generale non è un piano B. È una disciplina. E come ogni disciplina, ha confini, metodi e dignità. Chi li ignora, finisce per fare male il proprio mestiere. E per tradire la fiducia di chi, in buona fede, chiede soltanto di essere ascoltato, non medicalizzato.
di Marco Nardelli - MMG