Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta

  • Casa
  • Italia
  • Rome
  • Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta

Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta Psicologa - Psicoterapeuta - Analista Transazionale Nella mia pratica clinica, nel mio studio a Roma, mi occupo di consulenza e supporto psicologico.

Questa pagina ha lo scopo di fornire spunti di riflessione su tematiche legate alla psicologia, al confronto e allo scambio di opinioni. Non fornisco consulenze tramite Facebook, invito chiunque ne abbia bisogno a rivolgersi ai professionisti più adeguati. Psicoterapia. Colloqui individuali. Supporto durante i percorsi di Procreazione Medicalmente Assistita, sterilità e infertilità, ansia, attacchi di panico, fobie, compulsioni, ossessioni, depressione, lutto, perdita, separazione, divorzio, abbandono, difficoltà relazionali e affettive, fasi critiche della vita, disagio e conflitto col partner, con i figli o nel rapporto familiare, problemi di autostima, senso di vuoto, inefficacia, paura di vivere, solitudine, dipendenze, mobbing, disturbi dell’alimentazione, difficoltà di gestione di esperienze traumatiche, problematiche legate alla sfera sessuale individuale e di coppia, problematiche dell’identità, disturbi di personalità. Qualsiasi pubblicazione relativa alla pubblicità di altri siti o pagine Facebook effettuata sulla mia pagina senza autorizzazione, verrà rimossa. La maggior parte delle immagini inserite in questa pagina sono prese da internet; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, non esitate a comunicarmelo e provvederò a rimuoverle.

“Ci sono veleni che assumi ogni giorno fin dalla prima infanzia, a volte si chiamano mamma, a volte papà, a volte nonno ...
29/09/2025

“Ci sono veleni che assumi ogni giorno fin dalla prima infanzia, a volte si chiamano mamma, a volte papà, a volte nonno e nonna.

Ci sono veleni che, spesso, non sanno di essere veleni ma hanno un effetto tossico su di noi.
Ci sono veleni che non vorrebbero esserlo ma non sanno essere altro.

Non si può dire, non va mai detto, non sta bene, non è bello, non hai capito, sicuramente non è così, il male viene fatto per fare bene, non essere irriconoscente, però, alcune volte, va detto.

Ci sono veleni che ci vengono iniettati giorno dopo giorno con l'educazione, con il ricatto, con la rabbia, con la paura, con i gesti, con i non detti, con le bugie.
L'inadeguatezza, il non sentirsi mai abbastanza, il senso di colpa, la paura dell'abbandono, l'incertezza dell'amore, l'amore meritato e da meritarsi, il dover essere diversi perché quel che si è non va mai bene.

Ci sono veleni che fanno così tanto parte di te che, per toglierli, dovresti strapparti parte della pelle, a volte persino parte del cuore.

Ci sono veleni che fanno meno male se li si lascia lì. Ci sono veleni che ami, come si ama il sole ma alla lunga ti scottano.

Ci sono veleni che non sappiamo di iniettare, perché non siamo consapevoli del loro alto potenziale tossico. Ci sono veleni che non vorremmo mai iniettare ma non sappiamo come cambiare.

Ci sono veleni che pensiamo di dover passare per forza, perché li hanno passati a noi, perché si fa così, perché è giusto così.

E poi ci sono persone che sono antidoto e, per fortuna, anche queste a volte si chiamano mamma, papà, nonno o nonna.

A volte si chiamano marito, moglie, fidanzato, amico, maestra, maestro.
A volte non sappiamo come chiamarli ma sappiamo che sta funzionando, che ci sta facendo bene.

E poi c'è chi diventa consapevole e ogni giorno sceglie d'essere un po' meno veleno, sceglie di lavorare per diventare, quando può, antidoto”.

Burabacio

29/09/2025

Quante volte, in seduta, sento iniziare così: un sospiro, occhi lucidi, e poi…“Posso dirlo? Mi sono rotto i cogl…ni”. E ogni volta, quel “posso dirlo?” mi colpisce.
Non per la parolaccia (i miei pazienti sanno che in terapia si possono dire tranquillamente, le dico anche io), ma per il permesso che in qualche modo indirettamente stanno chiedendo… “posso davvero dire quanto sono stanco? Quanto sono esasperato? Quanto non ce la faccio più?”

È come se servisse l’autorizzazione a sentire. A dire ad alta voce qualcosa che si è tenuto dentro troppo a lungo. E quando finalmente viene fuori, anche se in modo crudo o arrabbiato, è un atto di liberazione. Un modo per dire: “Ci sono anch’io, con tutto quello che provo”. È riconoscere i propri limiti senza doversene vergognare. Perché spesso, non ci hanno insegnato ad esprimere la fatica, la rabbia e la frustrazione. Ci hanno insegnato a trattenerle, a sorridere, ad andare avanti e a non dare fastidio... e poi ci stupiamo se si arriva all’esasperazione e si sbotta.

E infatti di solito, dopo quel “mi sono rotto i cogl…ni”, arriva un sospirone lungo, liberatorio, seguito da un sorriso accennato e da un: “Ora che l’ho detto… mi sento già meglio”.
Succede spesso. Perché dare voce a ciò che si trattiene, senza filtri e senza giudizio, ha un potere davvero trasformativo perché il corpo finalmente sente di poter mollare un peso che teneva stretto da troppo tempo.
E a volte, tutto comincia proprio con una parolaccia detta col cuore. 😉 VS

28/09/2025

Ci sono vite oggettivamente più facili di altre. Alcuni partono da terreni fertili, altri da terre aride, piene di sassi. Ma una cosa la vedo sempre più chiaramente, ascoltando le storie in terapia: avere meno ostacoli non significa essere più felici. Non lo garantisce affatto.

In quella stanza le persone si permettono di essere autentiche, di togliere le maschere e guardarsi dentro senza sconti.
Ed è lì che si capisce che la vera “fortuna” non coincide con l’avere una vita liscia, ma con il modo in cui scegliamo di attraversarla, con ciò che decidiamo di nutrire.

E non significa farsi prendere in giro dal pensiero positivo, mangiare una minestra cattiva e dirsi: “mmm che bontà, quanto sono fortunato, pensa a chi non ce l’ha”. Sarebbe ipocrita, oltre che sciocco.

Significa invece ammettere: “oggi la mia minestra è questa, e sì, fa abbastanza schifo, anzi fa proprio schifo, ma la sto mangiando tenendo la mano di mio figlio”.
Oppure: “la sto mangiando in silenzio, con le lacrime agli occhi, perché mi pesa da morire, ma so che non sono solo a quel tavolo”.

“La sto mangiando mentre guardo i miei genitori invecchiare e penso che sono fortunato ad averli avuti”.

“La sto mangiando cercando di capire quali ingredienti posso aggiungere per renderne il sapore meno acido, meno sgradevole”.

“La sto mangiando a piccoli bocconi, con calma, per non farmi strozzare, ma comunque non mi alzo finché non ho finito”.

“La sto mangiando di corsa, rabbiosamente, perché non ho la pazienza di farne un rito, ma anche così la sto attraversando”.

“La sto mangiando insieme a chi amo, e anche se la minestra fa schifo, quella compagnia la rende meno amara”.

La vita non ci chiede permesso e non ci chiede scusa, semplicemente accade. E accade per tutti, che ci piaccia o no.

E no, non la faccio facile.
Non sono parole teoriche di chi si è nutrito solo di libri o di chi vuole colorare tutto di rosa vivendo fuori dal mondo.
Io ci vivo dentro questo mondo, con gli stessi dolori, e con queste stesse domande ci ho passato anni a riflettere: prima su di me, poi insieme ai pazienti.

Non è la strada facile. È come scegliamo di affrontarla, quella strada.

E questo voglio passare a voi: il riflettere su come mangiamo le nostre minestre rancide, a volte inevitabili.

Se scegliamo di farlo col vestito buono e un filo di profumo.
Se lo facciamo mantenendo il sorriso: non la risata cretina e ridicola, ma il sorriso fiducioso verso la vita.

E se sappiamo accorgerci di quando, invece della minestra schifosa, abbiamo davanti un dolcetto: di quelli belli da vedere e ancora più buoni da mangiare, un piccolo concentrato di bontà per occhi, palato e cuore.

Possiamo mangiarlo lentamente, assaporando ogni morso come fosse un regalo raro.

Possiamo condividerlo con qualcuno, e allora diventa ancora più dolce.

Possiamo custodirne un pezzo per dopo, per ricordarci che certe cose vanno centellinate.

Oppure possiamo divorarne ogni briciola con gratitudine, lasciando che ci riempia davvero.

Ma possiamo anche rovinarlo, mangiarlo distrattamente, come fosse un ovvio e misero risarcimento per tutta la mer*a che abbiamo dovuto ingoiare prima.

Ecco perché la gratitudine verso la vita è cosa rara. Perché quasi sempre sono più lunghe le liste di ciò che non abbiamo avuto o che non siamo riusciti ad evitare, piuttosto che quelle di ciò che per noi è stato davvero bello.

Eppure è proprio qui che si scrivono i copioni delle vite: nel ricordare cosa scegliamo di vedere, cosa scegliamo di trattenere.

Su questo, sì, possiamo dirci fortunati, se la vita ci fa il dono di mettere sul nostro cammino persone che fanno luce, che ci aiutano ad aprire lo sguardo, ad allungare la memoria, a non selezionare solo il brutto e il male, ma anche il bene e il sano.

Senza banalizzarlo, senza idealizzarlo: semplicemente vedendolo e gustandolo. VS

28/09/2025

Se qualcuno non è accanto a noi – non c’è a gioire delle cose belle, non c’è nei momenti difficili a tenderci una mano, a darci un abbraccio o a fare davvero da spalla – se non c’è per ascoltare uno sfogo, ridere di gusto o custodire un segreto, se manca sempre in tutto ciò che ci accade, è perché ha scelto di non esserci.
Non c’è distanza o impegno che possa giustificare, perché chi vuole far arrivare la sua presenza trova sempre il modo.
E lo stesso vale anche per noi, se ci pensiamo bene.

Per chi non c’è non servono interpretazioni né scuse che ci addolciscano la realtà, l’assenza è già la (dolorosa) risposta.
E noi meritiamo presenze autentiche, non sterili vuoti. VS

27/09/2025

Si sente spesso parlare di simbiosi per descrivere due persone molto unite, come se fosse un legame unico, speciale, quasi invidiabile.

⚠️ Attenzione!
Un rapporto davvero simbiotico (vivere in funzione dell’altro, sentirsi due metà dello stesso individuo, percepirsi inscindibili e indispensabili per la reciproca sopravvivenza) non è sano: è un rapporto tossico e disfunzionale, perché alimenta la dipendenza affettiva e psicologica.

L’unico rapporto simbiotico sano è quello della gravidanza e dei primissimi mesi di vita. Poi, anche con i figli, questa dimensione fusionale va trasformata in un legame diverso che potremmo sintetizzare in questa frase:
“Siamo due esseri distinti e separati, ma uniti dall’amore che proviamo l’uno per l’altro. Io resto io anche senza di te, e tu resti tu anche senza di me”.

Ecco la differenza tra simbiosi e amore maturo è questa, nel primo si perde se stessi in un "noi" indistinto, nel secondo ci si sceglie ogni giorno, rimanendo liberi e interi. Riflettiamoci. VS

26/09/2025

Tutti nasciamo radicalmente dipendenti. Nei primi anni di vita la nostra sopravvivenza dipende dal fatto che qualcuno ci nutra, ci consoli e ci protegga. Questo lascia un segno: il desiderio profondo di un “altro buono” sempre disponibile. Ma se quell’accudimento è stato incoerente (a volte presente, a volte freddo o assente) resta una ferita. Da adulti diventa un vuoto che sembra non riempirsi mai, una fame costante di attenzioni.

Il problema nasce quando questo bisogno non viene riconosciuto per quello che è. Non lo si esprime chiaramente, non si dice: “ho bisogno di te, ti chiedo aiuto”. Lo si trasforma invece in una pretesa silenziosa: “dovresti capirmi, dovresti esserci, dovresti saperlo senza che io dica nulla”. È come chiedere al presente di pagare un “risarcimento danni” per ciò che è mancato nel passato: qualcuno avrebbe dovuto esserci e non c’è stato, quindi ora devi compensare tu, se davvero mi vuoi bene. Ma nessuno può colmare fino in fondo quel vuoto antico, e quando chiediamo all’altro di farlo, il bisogno autentico si sporca di vittimismo.

Ecco perché, quando l’altro non risponde come ci aspettiamo, scattano delusione e accuse: “nessuno mi ama abbastanza, nessuno mi capisce davvero”. Così il bisogno si irrigidisce e diventa rancore.

Nelle relazioni questo pesa (e anche tanto). Chi pretende resta nel ruolo del “figlio eterno” che reclama cure senza fine. Chi riceve la pretesa si sente prosciugato, intrappolato nel ruolo di "genitore obbligato". Alla lunga il legame si incrina: da una parte c’è chi diventa sempre più invadente e mai sazio, dall’altra chi si sente trascurato o tradito. È un gioco al massacro.

Uscire da questo circolo vizioso richiede consapevolezza. Dietro ogni pretesa c’è un bisogno vero, ed è giusto riconoscerlo. Ma c’è una differenza enorme tra chiedere e pretendere. Chiedere è un atto adulto, espone la propria fragilità, lascia all’altro la libertà di dire sì o no. Pretendere è un atto infantile perchè obbliga, soffoca e toglie il respiro.

Il lavoro allora è imparare a nutrirsi anche da soli, almeno in parte, senza aspettarsi che l’altro colmi ogni vuoto (siamo adulti del resto!). Non è questione di negare il bisogno, ma di prenderne in mano la responsabilità. Solo così le relazioni smettono di essere catene e diventano scambi vivi, tra persone intere e non tra figli eterni e genitori forzati.

Un buon campanello d’allarme è notare come reagiamo quando l’altro non c’è. Se subito pensiamo “non mi vuole bene”, “non gli importa nulla di me”, forse stiamo scivolando nella pretesa. Se invece riusciamo a dire a noi stessi “mi dispiace, ma posso reggerlo” e magari comunicarlo con chiarezza, allora siamo su un piano più adulto. La differenza sta tutta lì. Riflettiamoci. VS

26/09/2025

Quando i miei pazienti cercano di fare tutto da soli, magari vittime di un copione che li porta a non voler pesare su nessuno, neanche sul terapeuta, teneramente e con un’ironia affettuosa dico sempre “e io che ci sto a fare? Me li vuole far guadagnare i soldi del mio lavoro o mi vuole pagare per fare tutto da solo?”
Di solito lo dico ridendo in romano stretto.
Di solito ridiamo forte e ci ritroviamo per mano a fare squadra. VS ❤️💪🏻✨

“Ci frequentiamo”. Due parole leggere, quasi dette per caso, eppure capaci di aprire mondi interi di dubbi, paure e desi...
26/09/2025

“Ci frequentiamo”. Due parole leggere, quasi dette per caso, eppure capaci di aprire mondi interi di dubbi, paure e desideri. In terapia le ascolto spesso, e raramente significano davvero la stessa cosa per tutti.

C’è chi lo dice con un sorriso un po’ incerto: “ci frequentiamo… ma in che senso, secondo lei?”, come se cercasse all’esterno una definizione che dentro non riesce a trovare. Altri lo usano come barriera: “No, non stiamo insieme, ci stiamo solo frequentando”, un modo elegante per dire “non voglio impegnarmi troppo” senza sembrare distaccati, quasi a proteggere il proprio spazio e a tenere lontano l’impegno che fa paura.

Per alcuni diventa una zona franca, un territorio intermedio dove muoversi con leggerezza, senza correre troppi rischi: non ti espongo del tutto, non mi vincolo del tutto. Una comfort zone che tranquillizza, ma che può anche immobilizzare. Per altri ancora è un’amicizia speciale, un ibrido che non è coppia ma nemmeno solo conoscenza, e che fa sentire meno soli senza mettere in gioco del tutto se stessi.

E poi ci sono quelli che vivono quel “ci frequentiamo” come un segnale di non essere ancora pronti, forti o “degni” di una relazione vera e propria: come se ci fosse bisogno di allenarsi o crescere prima di potersi sentire all’altezza di un legame stabile.

Ogni volta, dietro queste parole, si nascondono vissuti profondi: la paura di non bastare, il bisogno di protezione, la difficoltà a lasciarsi andare, ma anche il desiderio di prendersi tempo per conoscersi senza etichette.

È questo che rende il “ci frequentiamo” così ricco di significati, più che una definizione, diventa lo specchio delle fragilità e dei desideri che ciascuno porta con sé quando si avvicina a una relazione.

Eppure, questa fase non è priva di rischi. Può diventare un ponte prezioso verso un legame più solido, ma anche trasformarsi in un limbo che alimenta insicurezze e gelosie, un rifugio indefinito dove nessuno prende posizione. Restare troppo a lungo sospesi può significare illudersi o illudere l’altro, sprecare tempo se i desideri non vanno nella stessa direzione.

In fondo, dietro ogni “ci frequentiamo” convivono due forze opposte: la voglia di sentirsi vicini e scelti, e la paura di legarsi troppo o di soffrire. Spesso è proprio la paura che chiamare le cose col loro nome significhi aprire una porta che non si può più richiudere. Come se bastasse dire “siamo una coppia” per ritrovarsi di colpo incatenati a vincoli indissolubili, obblighi di esclusività, addirittura con l’ombra di matrimoni e presentazioni ufficiali alle famiglie.

È un timore diffuso: l’idea che definire significhi rinunciare alla leggerezza, alla possibilità di andarsene se qualcosa non funziona, alla libertà di vivere il rapporto senza etichette. Per questo tanti restano nel territorio del “ci frequentiamo”, un modo per dirsi vicini senza sentirsi incatenati.

Eppure, non sempre chiamarsi coppia significa tutto questo. Spesso è soltanto dare un nome a un legame che già esiste nei fatti: la cura reciproca, la scelta di vedersi con continuità, l’intimità che cresce. Non è una prigione, è un riconoscimento.

Il lavoro, in terapia come nella vita, diventa allora proprio questo: distinguere quando quella paura ci protegge davvero e quando invece ci trattiene dal vivere con pienezza qualcosa che già, in fondo, ha le radici di una relazione. VS

C’è un momento preciso in cui smettiamo di guardare certe persone come prima.Non più con tenerezza, ma neanche più con r...
25/09/2025

C’è un momento preciso in cui smettiamo di guardare certe persone come prima.
Non più con tenerezza, ma neanche più con rabbia.
All’inizio ci illudiamo: aspettiamo il messaggio che non arriva mai, accettiamo la promessa che non viene mantenuta, sorridiamo all’amico che si ricorda di noi solo quando ha bisogno. Sopportiamo il collega che non perde occasione per criticarci, ingoiamo il silenzio del familiare che pretende tanto ma non dice mai “grazie”.

E dentro di noi oscilliamo. Un giorno giustifichiamo, il giorno dopo esplodiamo di rabbia. Ci sentiamo generosi, poi ci sentiamo sciocchi e ingenui. Ci consumiamo in un’altalena che non ci lascia tregua.

Poi, un giorno, succede: ci fermiamo. Non ci interessa più rincorrere chi non sa restare. Non perdiamo tempo a spiegare a chi non ci vuole capire. Non stiamo più svegli a rimuginare su chi ci ha mancato di rispetto e scopriamo l’indifferenza.

E, attenzione, l’indifferenza non è vuoto, non è freddezza. È una scelta di protezione, non è l’indifferenza manipolatoria né subdola, non serve a punire né a ricattare e non vuole agganciare l’altro… è una sorta di “indifferenza pura” che serve solo a liberarci, a vedere l’altro per quello che è davvero e a custodire la nostra salute.

Indifferenza è anche lasciare la presa, smettere di accanirci per tenere in piedi a tutti i costi un legame, sia con l’affetto che con la rabbia. È accettare che quel legame è a senso unico, che la corda la tenevamo solo noi, e che possiamo lasciarla andare. È come un palloncino che vola via dalle mani, non ci affanniamo più a rincorrerlo, lo guardiamo allontanarsi sapendo che insieme a lui se ne vanno la stima e la fiducia che avevamo riposto.

E così scopriamo l’effetto “detox”, la mente si libera dai pensieri ossessivi, il corpo smette di vivere in tensione, il cuore non batte più all’impazzata per i silenzi o i conflitti. Dormiamo meglio, respiriamo meglio e ci sentiamo più leggeri. È come togliere un peso invisibile che ci teneva piegati senza che ce ne accorgessimo.

E proprio lì, in quello spazio nuovo e più leggero, capiamo cosa significa davvero essere indifferenti: lasciare che le parole di chi ci giudica scivolino via come pioggia sull’impermeabile, non rispondere più d’istinto a chi ci provoca, non cercare più conferme da chi ci ha già mostrato la sua assenza.

Ed è in quel momento che accade qualcosa di potente, il cuore si alleggerisce, la mente si acquieta, il corpo finalmente respira. Perché l’indifferenza, quella vera, non è disinteresse ma amore per noi stessi. È la scelta silenziosa che ci restituisce pace, forza e salute. VS

25/09/2025

Ci sono giorni così.
Giornate che si trascinano, lente e ovattate, in cui tutto sembra uguale, e noi... un po’ meno vivi del solito. Non è tristezza, non è rabbia. È come una nebbia dentro... apatia, indolenza... Un senso di vuoto che non fa rumore ma pesa comunque. E allora ci troviamo lì, immobili, a guardare il soffitto o a scorrere schermi senza davvero vedere nulla.
Non abbiamo voglia di fare, né di sentire. Anche le emozioni sembrano assopite e letargiche.
Eppure, anche in questi momenti, qualcosa in noi respira piano. Forse è il bisogno di tenerezza, o solo il cuore che chiede silenziosamente una tregua (e come dargli torto?!).

Non c’è niente di sbagliato in noi.
Questi stati fanno parte dell’umano. Non siamo macchine sempre attive, produttive, motivate. Siamo onde. E ci sono maree più basse, giorni di bonaccia interiore in cui il mondo fuori ci appare lontano, sfuocato. È il corpo che chiede ascolto. È l’anima che si ritira per un attimo, come per fare spazio.
In quei momenti, non serve forzarci. Non dobbiamo aggiustarci subito. Possiamo invece prenderci per mano, dirci “va bene così”, anche se non capiamo fino in fondo. Possiamo respirare insieme nella stanchezza, nell’inconsistenza, senza giudizio.
E piano, senza fretta, tornerà anche il desiderio.
Tornerà la luce, magari con un piccolo gesto, un sorriso lieve, una carezza, una tazza calda tra le mani.
Nel frattempo, stiamoci accanto. Anche nel vuoto. VS ❤

✨ Le conosco anche io queste sensazioni, non abbiatene paura, state con voi amorevolmente quando vi sentite così. Sono esperienze che viviamo tutti, poi c'è chi le rifugge facendo mille cose e non dandosi il tempo di sentire l'apatia e il vuoto e poi c'è chi ci abita quotidianamente. Lasciate che siano momenti, giornate, poi lasciatevi impattare da qualcosa di piccolo, semplice ma "luminoso" e tornerete a guardare voi stessi e la vita da una prospettiva diversa. ❤🌱

24/09/2025

A volte è come stare in mare aperto: ci sentiamo svuotati, con un peso ai piedi che ci trascina giù. Le onde ci sbattono addosso, l’acqua ci brucia gli occhi di sale e le forze ci mancano. Annaspiamo cercando aria e ci ritroviamo a guardare verso l’alto, quasi in cerca di un appiglio o di un aiuto.

Capita a tutti di trovarsi in balìa delle onde. Ma anche lì, con l’acqua che sembra travolgerci, ci sono piccoli gesti che possono farci restare a galla, abbastanza a lungo da attraversare il mare agitato:

🌿 Respirare piano e profondamente, contando, per dare ossigeno al corpo e calma alla mente.

🌿 Aggrapparci al presente, notando ciò che vediamo, tocchiamo, ascoltiamo. È un modo per non perderci.

🌿 Muovere il corpo, anche poco, per scrollarci addosso la pesantezza.

🌿 Fare una sola piccola cosa, semplice e concreta, che ci ricorda che siamo capaci di agire.

🌿 Parlarci con gentilezza, dirci: "Non sono io a essere questo peso. È un’onda. E passerà".

E quando l’acqua è più calma, possiamo prenderci cura di noi con una prevenzione leggera:

🌷 curare sonno, alimentazione e idratazione: le fondamenta invisibili che reggono tutto;

🌷 ritagliarci dieci minuti per un piccolo rifugio quotidiano, qualcosa che ci faccia bene davvero;

🌷 cercare un filo con gli altri, anche solo un messaggio o una parola, perché basta poco per sentirci meno soli.

Non sono rimedi miracolosi, ma galleggianti a cui possiamo aggrapparci. Ci ricordano che l’onda non è più forte di noi, e che prima o poi l’acqua torna sempre più quieta.

Se però queste sensazioni diventano troppo frequenti o non ci lasciano andare e perdurano nel tempo, è fondamentale chiedere aiuto... che non significa arrendersi, ma scegliere di non restare a fondo da soli. È un atto di rispetto verso di noi stessi, un modo concreto per prenderci sul serio e dare spazio alla possibilità di tornare a respirare, con più forza, più lucidità e più vita di prima. VS

“Caro genitore, ti scrivo perché so quanto è difficile navigare nel mare della crescita dei figli. A volte ti senti solo...
24/09/2025

“Caro genitore, ti scrivo perché so quanto è difficile navigare nel mare della crescita dei figli. A volte ti senti solo, a volte vorresti un manuale che ti dicesse quello che devi fare e altre volte, quando ti trovi in mezzo ad una tempesta, una pilotina che ti aiuti a riprendere la strada giusta per gestire gli eventi del quotidiano e della vita. Nella loro crescita devi essere innanzitutto il loro timone, devi insegnargli la rotta e poi, devi scendere dalla loro nave, devi farli andare da soli e rimanere per loro un PORTO SICURO che sarà sempre lì, per approdare in qualsiasi momento in cui loro possano aver bisogno. In questo tuo viaggio, caro genitore, arriva un momento difficile, quando li vedi cambiare, quando ti sfuggono di mano, quando davanti agli occhi ti trovi un piccolo adulto che non vuole più condividere la sua vita con te. Devi capire, caro genitore, che il tuo è il mestiere più importante e più difficile del mondo. Lo devi accompagnare passo dopo passo, devi fargli vivere tutte le fasi dello sviluppo, devi accettare che ad un certo momento non hai più il ruolo che avevi prima. Questo però non vuol dire che non ti vuole più bene o che non ti è più riconoscente, ma che hai lavorato bene, che sta prendendo il volo per il suo viaggio in cui tu non potrai avere il ruolo di prima perché ci sarà qualcun altro al suo fianco. Il legame genitore-figlio è per sempre.
La tua gioia e soddisfazione sarà vedere il suo sorriso e il tuo dovere sarà quello di vegliare in silenzio sempre su di lui”.

Maura Manca ✍🏻

Indirizzo

Largo Millesimo 19
Rome
00168

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Contatta Lo Studio

Invia un messaggio a Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta:

Condividi

Share on Facebook Share on Twitter Share on LinkedIn
Share on Pinterest Share on Reddit Share via Email
Share on WhatsApp Share on Instagram Share on Telegram

Digitare