27/08/2025
I pazienti inguaribili
Perché non dire la verità? Si sa che la verità è scomoda, soprattutto per chi come me ha dato la sua vita a curare pazienti di ogni genere. Ma la verità bisogna pur dirla, anche rischiando aspre critiche.
Leggo, sento affermare che non vi è disturbo psichico, anche il più serio (e mi riferisco ai più compromettenti disturbi della personalità) dal quale non si possa guarire. E poi "guarire" è un verbo che non mi piace, sa di miracolo, e noi terapeuti non abbiamo poteri taumaturgici. Diciamo meglio liberarsi da qualcosa che affligge l'essere umano e non lo rende capace di trovare il senso della propria vita.
Alcuni pazienti, pochi in verità, pur sottoposti a ogni tentativo di cura farmacologica e psicologica, pur avendo raggiunto la consapevolezza delle cause della loro infelicità e conoscendo il modo per uscirne, rimangono bloccati negli schemi appresi e non riescono a operare quella vera e propria conversione di marcia che apparentemente desiderano. Eppure hanno trascorso una vita in psicoterapie o psicoanalisi di ogni genere, tutte risultate inefficaci e dichiarate fallimentari. Hanno cambiato non so quanti terapeuti, sono stati e continuano a essere assidui nell'assumere i farmaci prescritti.
Niente da fare. Può anche darsi che nessun terapeuta sia stato all'altezza e che i farmaci prescritti siano sbagliati. Può essere certamente che in certi casi tutti gli psicoterapeuti, gli psichiatri, gli psicoanalisti, i guru, i maestri di saggezza, di ogni setta e indirizzo, abbiano fallito nel loro intento o che a volte qualsiasi metodo di cura psicologica sia per natura inefficace.
È una possibilità, chi può dirlo. È comunque senza dubbio la convinzione di coloro che non ne hanno tratto alcun beneficio.
C'è sempre tuttavia da domandarsi se vi sia una ragione del fallimento di ogni possibile cura, e quale sia, dal momento che si è tentato di tutto e di più. Chissà, la scienza ha anch'essa i suoi limiti e chi può mai arrivare a comprendere razionalmente le contraddizioni della psiche umana, perché mai un essere umano, a differenza di qualunque altro animale, ami a volte più l'autodistruzione che la preservazione della vita. Quella sorta di necrofilia di cui parlava Fromm.
Ciò accade ovviamente ai pazienti affetti da gravi disturbi della personalità. Si sono a tal punto identificati col loro modo di pensare e di relazionarsi che fuoriuscirne rappresenterebbe la perdita della loro identità, del loro Io cui non vogliono, non possono rinunciare. Sarebbe come perdere il corpo, la pelle e tutti gli organi che tengono in vita. Sarebbe contattare e non combattere quel vuoto di senso che in verità è da sempre presente e non si può sostenere, si deve in qualche modo combattere, riempire, anche con cibo avariato.
Non tutti i pazienti sono in grado di affrontare questo stato, vissuto come un tremendo dèmone, e compiere una vera e propria rivoluzione che li liberi non tanto da esso quanto da sé stessi. Ci può essere un qualche miglioramento, ma bisogna vedere se sia momentaneo, apparente, non destinato a produrre una reale trasformazione. Del resto, qualunque essere vivente ha una sua natura, una sua "forma" e un cespuglio di rovi non potrà mai diventare un baobab. Potrà liberarsi da qualche intreccio spinoso ma non potrà procedere oltre. A meno che... C'è sempre un almeno che: accettare la propria natura e migliorarla seguendo la sua precipua traiettoria. In natura tutto ha un suo valore, dal filo d'erba alla pianta più maestosa purché non sia deviata dal suo naturale processo di evoluzione.
Purtroppo accade che gli esseri umani si affezionino al malessere esistenziale, alle spine che li pungono, e alcuni non se ne vogliano in alcun modo liberare. Pensano che, ripetendo schemi cognitivi e comportamentali acquisiti e ben radicati in qualche area del cervello, se ne libereranno, provando e riprovando sempre alla stessa maniera. Come un giocatore che, pur avendo perso tutto, riprova con l'assurda convinzione che si rifarà alla prossima giocata e punta tutto, anche se pieno di debiti insoluti, sempre allo stesso modo e sullo stesso numero.
Sono processi che accadono nelle profondità della psiche e di cui non ci si rende minimamente conto.
La "guarigione" non accade se non si vuole veramente guarire, con tutta l'anima e l'impegno necessario. Nei Vangeli perfino Gesù sa bene che il miracolo non accadrà se non sinceramente richiesto dal profondo del cuore. "Vuoi tu guarire?", questa è la domanda rivolta al paralitico bloccato da trentotto anni sul bordo della piscina. "Sì, lo voglio" è la risposta, una risposta che indica non solo il desiderio di recuperare la salute, ma la fiducia assoluta nella potenza della vita, del bene sul male, una fiducia nell'altro e nelle proprie possibilità.
Purtroppo, disgraziatamente, questa fede-fiducia in alcuni esseri umani non sussiste, non si è potuta sviluppare, vuoi per l'ambiente, vuoi per chissà quale altra oscura causa, forse biologica, o forse no. Fatto sta che il seme è germogliato a modo suo.
Io terapeuta non posso "volere" al posto del mio paziente. Mi impegnerò con tutta me stessa, ma non ho il potere di piegare la volontà di nessuno. Il paziente inguaribile afferma di volere, ma in lui è presente una controvolontà che lo conduce in tutt'altra direzione.
Il lavoro terapeutico si fa in due, remando nella stessa direzione. Se il paziente, pur sempre accondiscendente nell'ora di terapia, tornato sui suoi passi agisce a modo suo, disfacendo come Penelope la tela, il lavoro è improduttivo e dannoso tanto per il paziente quanto per il terapeuta che si è tanto adoperato.
Pertanto, quando ho davanti a me un paziente che nonostante tutto l'impegno dei tanti colleghi che mi hanno.preceduto e nonostante la mia totale dedizione
si rivela resistente a ogni pur minimo cambiamento, anzi, fa di tutto per contrastarlo, dopo avere chiarito bene, sia dentro di me che nell'altro, quanto accade, lo invito garbatamente, con il massimo rispetto e con tutta la comprensione del suo stato di sofferenza, a prendere atto che non intendo più seguirlo.
Sarebbe un dispendio di tempo e denaro per lui inutile e per me disonesto.
Non voglio ingannare nessuno, non mi interessa il mio tornaconto. Sono consapevole delle mie possibilità e dei miei limiti e sono responsabile nei confronti dell'altro che è responsabile infine solo lui dell'uso che farà del tempo di vita che gli è dato.