14/01/2021
UN FIGLIO CON LA DONAZIONE DI OVOCITI
Dott. Domenico Danza – Mediterraneo Medicina della Riproduzione, Salerno
La tecnica della donazione di ovuli, la cui diffusione è oggi significativamente più elevata rispetto agli anni passati, è destinata quasi esclusivamente a pazienti che hanno esaurito la riserva ovarica. Le cause possono essere varie e interessare, anche se in percentuale significativamente minore, donne giovani sottoposte ad esempio a interventi chirurgici che hanno comportato l’asportazione delle ovaie o che le abbiano compromesse gravemente, condizioni quali le agenesie ovariche (assenza congenita dello sviluppo ovarico), ecc. Ma a ricorrere a queste tecniche sono principalmente quelle donne che per cause fisiologiche legate all’età hanno perduto le possibilità di
generare un figlio con i propri ovuli.
Uno dei principali motivi dell’incremento della tecnica di donazione degli ovuli è sicuramente da riferire a fattori socio-culturali, responsabili della tendenza sempre più diffusa a rimandare il momento della prima gravidanza a epoche di età più avanzate. Questo penalizza la donna in termini di fertilità, il che si traduce in una maggiore difficoltà nel concepimento sia spontaneo sia assistito, creando le condizioni per un maggior ricorso alle tecniche
di ovodonazione.
È bene ricordare che la riduzione della capacità riproduttiva nella donna inizia fisiologicamente
intorno ai 35 anni, e progredisce anno per anno fino al quasi completo esaurimento della funzionalità ovarica dopo i 42 anni. Si calcola che una donna su tre e una donna su due avranno problemi nel concepire rispettivamente dopo i 35 e 40 anni. I fattori alla base della riduzione della fertilità sono: la fisiologica riduzione del numero di ovociti, un determinante deterioramento della loro qualità (dopo i 40 anni raggiunge circa l’80%) che ha come conseguenza un aumento dell’abortività (dopo i 40 anni supera il 50%) e delle malformazioni fetali.
Tutto ciò si traduce in un’importante riduzione dei risultati positivi in termini di gravidanze delle tecniche di PMA eseguite in pazienti di età avanzata, inducendo di conseguenza il ricorso a tecniche di ovodonazione.
La pratica di donazione di ovuli (denominata anche eterologa femminile), inizialmente vietata dalla legge 40, attualmente è possibile anche nel nostro Paese, ma la persistente difficoltà nel reperimento di donatrici idonee, che volontariamente e gratuitamente decidano di donare i propri ovociti, ha costretto molti centri a rivolgersi a “banche di ovociti“ straniere per l’approvvigionamento di ovociti congelati.
La tecnica per la ricevente risulta sostanzialmente semplice, esistono diversi protocolli dall’esecuzione su ciclo spontaneo (meno diffusa) a protocolli che prevedono sostanzialmente l’assunzione di ormoni in modo da mimare la maturazione dell’endometrio, creando quindi farmacologicamente un ambiente intrauterino ideale per il trasferimento degli embrioni ottenuti in laboratorio con il seme del partner.
In caso di gravidanza, la terapia ormonale sarà proseguita fin quando quest’ultima non sarà in grado di proseguire in maniera autonoma e fisiologica.
Gli ovociti donati variano, a seconda delle strutture che praticano tale tecnica, dai 6 agli 8 circa e gli embrioni trasferiti sono in genere 2. Provengono da donatrici giovani fertili sottoposte a una serie di esami ben definiti che ne definiscono l’idoneità, il loro anonimato è tutelato ma viene conservata una documentazione che ne assicuri la rintracciabilità, e nessuna donatrice può avere accesso ai dati riconducibili ai nati con i propri ovociti.
Naturalmente ai fini del risultato finale non basta solo una buona qualità ovocitaria, le caratteristiche del seme possono influenzare le percentuali di successo, così come eventuali altri fattori legati alla salute della aspirante mamma, fibromatosi uterine, iperplasie endometriali, poliposi, esiti di pregresse infezioni possono influire negativamente sull’impianto. Inoltre un’età particolarmente avanzata (limite massimo di età 50 anni) o la presenza di sovrappeso, diabete, ipertensione, possono influire negativamente sull’andamento della gravidanza con rischi
potenzialmente gravi sulla salute della madre e del feto. Da ciò deriva la necessità di identificare condizioni di rischio per la gravidanza o eventuali fattori che potrebbero ridurre le percentuali di successo, al fine di informare le coppie su tutti gli aspetti del percorso che stanno intraprendendo.
Il patrimonio genetico del nascituro sarà per il 50% del padre anagrafico e per l’altro 50% della donatrice. Tuttavia, la donna che ha maturato l’idea di intraprendere tale percorso finalizzato alla maternità non è da considerarsi un contenitore passivo di un embrione che geneticamente non le appartiene, oggi sappiamo che essa può influenzare l’espressione genica del figlio attraverso meccanismi umorali e biochimici. Inoltre i nove mesi di gravidanza con tutte le modifiche fisico-psicologiche ad essa associate, il parto, l’allattamento, sono tutti aspetti essenziali che influiscono positivamente sulle dinamiche psico-emotive madre-figlio, rendendo la tecnica ben accettata dalla coppia.
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