
20/08/2025
La scrivania in foto si chiama “Boomerang”.
Fu scelta tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 da un ragioniere arrivato in città da una piccola provincia calabrese.
Aveva cominciato come educatore, ed era diventato direttore del posto dove aveva mosso i primi passi.
Direttore, non dirigente.
Men che mai “manager”.
Lo diceva con orgoglio: in quel titolo c’erano dignità, rispetto, amore per il lavoro e per il luogo.
L’arredo delle stanze, ristrutturate in quegli anni, fu scelto con cura.
La forma curva della scrivania doveva servire a separare senza dividere.
Voleva essere il segno di uno spazio dove ascoltare davvero.
Perché anche un angolo smussato può servire a prendersi cura.
Tra gli arredi era stato inserito anche un divano.
Sì, dentro un ambulatorio, non in sala d’attesa.
Per far sentire accolti, non solo visitati.
La mia prima lezione sul setting terapeutico l’ho ricevuta da lui, quando ancora non ero psicologa.
E il dovere di sentire l’altro me l’ha insegnato un “non psicologo”, quando il “siamo tutti un po’ psicologi” non era nemmeno pensabile.
Il divano non c’è più da molti anni.
“Efficientare” pare faccia a botte con “accogliere”.
La scrivania resiste, ma oggi, per i molti che non ne conoscono la storia, è solo un mobile.
Ci sono giorni in cui la tua assenza pesa come una pietra.
E altri in cui basta la curva del legno
per sentire che sei ancora qui.
Ciao papà.