16/09/2025
Non sono immune. Ho solo una laurea.
Anni fa, durante una formazione, un docente – stupito dal fatto che i terapeuti possano avere bisogno di sostegno psicologico – mi disse:
“È come dire che per fare l’avvocato penalista devi aver fatto qualche anno di galera
Ero giovane. Rimasi zitta.
La psicoterapia, più di oggi, era "una roba da matti". Se ci andavi, meglio tenerlo per sé, come – appunto- i crimini commessi.
Il benessere psicologico? Non pervenuto.
Il terapeuta “vero”, quello bravo, doveva essere invulnerabile. Mai bisognoso. Mai stanco. Mai toccato dalle stesse difficoltà delle persone che accompagna.
Un po’ come dire che un bravo medico non si ammala, un meccanico guida solo auto perfette o un pasticciere non mangia dolci.
Anni dopo, in pieno lutto, una collega mi disse:
“Hai sicuramente gli strumenti per affrontare tutto questo.”
Tradotto: “Tu sei terapeuta, mica umana.”
Zero abbraccio. Zero empatia.
Come se fare questo lavoro equivalga ad una certificazione in distacco emotivo.
La psicoterapia non riconosciuta come lavoro diventa un’aura. Una malattia. Una mutazione genetica.
Tutto, tranne che un mestiere vero.
Spoiler: è proprio un lavoro.
Nobile? Forse.
Utile? Speriamo.
Sacro? Dai, non esageriamo.
Ma è un lavoro.
Fatto da persone. Con una vita vera.
E – sorpresa – pure emozioni, problemi, casini, incoerenze.
Allego foto sorridente con le amiche storiche, scattata ai tempi del liceo.
Prima della psicologia. Prima del mestiere.
Consapevole delle ingiurie del tempo che passa.
E, soprattutto, del fatto che: no! Essere terapeuta non mi rende immune alla vita.