27/10/2025
“Guarda cosa mi hai fatto fare”: il manifesto dell’abuso travestito da giustificazione
“Guarda cosa mi hai fatto fare”: il manifesto dell’abuso travestito da giustificazione
“Guarda cosa mi hai fatto fare.”
È la frase emblematica dell’uomo violento.
Un tentativo disperato di rovesciare le responsabilità, di spostare la colpa, di salvare se stesso anche di fronte all’irreparabile.
È il grido distorto di chi non tollera l’idea che la donna che considerava sua proprietà abbia osato disobbedire, sottrarsi, scegliere di vivere senza di lui.
Alla base dei femminicidi non c’è un raptus, non c’è la follia improvvisa, c’è una cultura del possesso e dell’umiliazione.
Quella convinzione arcaica, persistente e velenosa secondo cui una donna che se ne va, che non obbedisce più, che rifiuta, che dice “no” è un affronto al potere maschile.
Un’offesa da lavare col sangue.
Il femminicida non uccide per amore, ma per ripristinare il proprio dominio simbolico, per punire quella che ha osato sfuggirgli e, nel farlo, lo ha esposto al ridicolo agli occhi degli altri uomini.
È la logica del controllo assoluto, del “se non sei mia, non sarai di nessuno”, radicata nel tessuto profondo di una società che ancora educa troppi uomini a confondere l’amore con il possesso e la virilità con la sopraffazione.
Poi arrivano le giustificazioni, sempre uguali:
“È stata lei a provocarmi.”
“Ho perso la testa.”
“Era disperato.”
Sono le carte del vittimismo maschile, le stesse che si giocano ogni volta che una donna subisce violenza: la colpa è del vestito, dell’alcol, dell’ora, del quartiere, della sua libertà.
È la retorica tossica della “colpa della vittima”, quella che stiamo vedendo ripetersi anche nella vittimizzazione secondaria, in cui la sopravvissuta viene interrogata, sospettata, colpevolizzata, mentre il predatore, che spesso agisce in branco, si autoassolve in nome della “ragazzata”.
Non è mai un episodio isolato.
È il prodotto sistemico di una cultura patriarcale che da secoli insegna agli uomini a esercitare controllo e alle donne a giustificare, comprendere, perdonare.
Ogni volta che un femminicida parla di “raptus”, ogni volta che un giornale titola “uccisa per gelosia”, si rinnova quel copione sociale in cui il carnefice diventa “vittima delle circostanze” e la donna viene ridotta a comparsa della sua stessa morte.
Il problema non è solo l’uomo violento — ma il sistema di narrazioni che lo legittima, che gli offre il microfono, che racconta la sua versione senza un minimo di analisi critica, senza un confronto con la realtà dei fatti, senza mettere in discussione il modello di maschilità tossica che produce tutto questo.
Finché continueremo a dare spazio mediatico alle giustificazioni degli aggressori, senza affiancare la voce della competenza, dei dati, dell’analisi psicologica e criminologica, saremo complici di quel meccanismo che trasforma la violenza in spettacolo e la vittima in nota a margine.
La verità è semplice, brutale, innegabile:
non è lei che “lo ha fatto impazzire” — è lui che non ha mai accettato di non possederla più.
E questa, in una società ancora immersa nel mito del dominio maschile, continua a essere la più intollerabile delle umiliazioni per questi maschi mai diventati veramente uomini.