Dott.ssa Marina Noviello Psicologa Psicoterapeuta

Dott.ssa Marina Noviello Psicologa Psicoterapeuta Psicologa e psicoterapeuta ad orientamento Gestalt e Analisi Transazionale

La Dottoressa offre consulenza e sostegno psicologico individuale, di coppia, con adolescenti e bambini, su tematiche relazionali, familiari, ansia, attacchi di panico, disturbi dell’alimentazione, deficit di autostima, elaborazioni di lutti, tematiche adolescenziali e dello sviluppo, dipendenze da sostanze o da nuove tecnologie. Il tipo di terapia proposta dalla dottoressa è una terapia centrata

sulla modalità di svolgimento di un’azione o della formulazione di un pensiero, per poter arrivare ad un cambiamento che sia stabile e spontaneo. La relazione terapeutica è lo spazio dove sperimentare al meglio la gestione delle proprie emozioni e dove ricercare i metodi migliori per risolvere i problemi, attraverso una migliore comprensione di se stessi e della propria interiorità. Durante il primo colloquio, la dott.ssa ascolterà il vissuto relativo al “qui ed ora” della persona che chiede la consulenza. Si parte da quella che è l’esperienza attuale e dalle difficoltà che la persona incontra, per poi far emergere i suoi bisogni e le sue aspettative riguardo al percorso psicoterapeutico.

Ciò che vedete dipende dalle teorie che usate per interpretare le vostre osservazioni.-Albert Einstein(Arte: Carol Rama)
28/07/2025

Ciò che vedete dipende dalle teorie che usate per interpretare le vostre osservazioni.

-Albert Einstein

(Arte: Carol Rama)

Ieri in metropolitana ho visto una ragazza guardare una serie TV sul suo cellulare... a velocità aumentata. Come si fa c...
24/07/2025

Ieri in metropolitana ho visto una ragazza guardare una serie TV sul suo cellulare... a velocità aumentata.
Come si fa con gli audio di WhatsApp.
Un dettaglio piccolo, quasi insignificante, che per me è stato un campanello.

Mi sono chiesta: cosa ci spinge ad accelerare anche il tempo dell’intrattenimento? Quale bisogno si nasconde dietro questa urgenza?
È come se quella sequenza accelerata facesse da specchio ad un bisogno più profondo: fare presto, fare tanto, fare tutto, anche a costo di non sentire nulla davvero.

Guardare una serie a 1.5x può apparire una scelta banale, ma sul piano simbolico è anche una difesa: la difesa dall’intimità dell’esperienza.

Come se vivere le cose per davvero, assaporarle, lasciarsi toccare, fosse troppo rischioso.
Meglio consumare, archiviare, passare oltre.
In questo modo, il fare prende il posto dell’essere e l'azione prende il posto della presenza, col rischio di vivere una vita dove si fa tutto senza esserci mai davvero.

Forse è questo che ci spinge: la difficoltà a stare, a tollerare l’attesa, il silenzio, la lentezza. Forse consumiamo le esperienze più per archiviarle che per viverle davvero. Come se dovessimo riempire caselle, collezionare attimi, ma senza fermarci a viverli davvero, ad abitarli.

Credo che noi siamo più lenti di ciò che il mondo ci chiede di essere. Che l’anima abbia tempi dilatati, profondi, diversi. Ma noi corriamo e più corriamo, più ci allontaniamo da quella parte di noi che resta indietro. Si crea un distacco, come un senso di vuoto, una sensazione che possiamo chiamare stress, ansia, insoddisfazione...

Tempo fa ho incontrato un libro meraviglioso: "L’anima smarrita".
Racconta proprio questo: una persona che, vivendo troppo in fretta, perde la propria anima.
E che poi, a un certo punto, decide di fermarsi e di aspettarla: di lasciarle il tempo per tornare.
In un tempo che ci vuole sempre reattivi, compie un atto sovversivo: si ferma, rallenta.

Forse dovremmo anche noi rallentare abbastanza da permettere alla nostra anima di raggiungerci.

Come sarebbe fermarsi, rallentare, a cosa dovremmo rinunciare e cosa potremmo, invece, incontrare?

(Arte: Joanna Concejo, tratta dal libro L'ANIMA SMARRITA di Olga Tokarçzuk)

Il "risveglio" di un uomo ha inizio dall'istante in cui si rende conto che non va da nessuna parte e che non sa dove and...
17/07/2025

Il "risveglio" di un uomo ha inizio dall'istante in cui si rende conto che non va da nessuna parte e che non sa dove andare.

"Svegliarsi" significa realizzare la propria meccanicità, completa e assoluta, e la propria impotenza, non meno completa, non meno assoluta.

E non è sufficiente comprendere queste cose filosoficamente, a parole.
Bisogna rendersene conto attraverso fatti semplici, chiari, concreti, fatti che ci concernono.

Quando un uomo comincia a conoscersi un po', vede in se stesso delle cose che lo fanno inorridire.

Fintanto che un uomo non si fa orrore, non sa niente di se stesso.

Quando comincia a conoscere se stesso, vede che non possiede niente, tutto ciò che ha considerato come suo, le sue idee, i suoi pensieri, le sue convinzioni, le sue tendenze, le sue abitudini, le sue stesse colpe e i suoi vizi, niente di tutto questo gli appartiene: tutto si è formato per imitazione, oppure è stato copiato da qualche parte, tale e quale.

L'uomo che sente tutto ciò, sentendo la sua nullità, si vedrà come egli è in realtà, non per un secondo, non per un momento, ma costantemente, senza dimenticarlo mai più.

Se gli uomini potessero veramente rendersi conto della loro reale situazione, se potessero comprenderne tutto l'orrore, sarebbero incapaci di rimanere tali quali sono, anche per un solo secondo.

Comincerebbero subito a cercare una via d'uscita, e la troverebbero molto rapidamente, perchè vi è una via d'uscita; ma gli uomini non riescono a vederla, per la semplice ragione che sono ipnotizzati.

-Ouspensky, "Frammenti di un insegnamento sconosciuto"

"..ma l'impresa eccezionale -dammi retta- è essere normale."Il bisogno di sentirsi speciali non si manifesta sempre come...
09/07/2025

"..ma l'impresa eccezionale -dammi retta- è essere normale."

Il bisogno di sentirsi speciali non si manifesta sempre come una ricerca di grandezza o successo visibile. A volte prende forme più ambigue, più cupe, probabilmente più subdole, eppure altrettanto centrali nella struttura psichica: ci si sente speciali nella propria inferiorità, unici nel proprio dolore, irrimediabilmente diversi per ciò che manca.

Questa è forse la versione più sottile e ingannevole del bisogno nevrotico di distinzione.
Non è il bisogno orgoglioso di distinguersi in quanto a grandezza a guidare, ma ci si convince che il proprio fallimento sia più profondo, la propria fragilità più tragica, la propria stranezza più incomprensibile di quella di chiunque altro.
Si vivono le proprie carenze come fossero un marchio identitario, un destino singolare.

In entrambi i casi, che si tratti di sentirsi superiori o irrimediabilmente inferiori, il punto centrale resta lo stesso: ci si allontana dalla realtà.
Si resta imprigionati in una narrazione di sé che cerca disperatamente significato attraverso la distanza dagli altri, mai attraverso la comunanza.

Ma questa necessità di distinzione, di “specialità”, non è crescita. È difesa.
È una costruzione, spesso inconscia, nata per proteggere un nucleo di vergogna, di confusione o di paura.

In nome di questa illusione, ci si condanna a un’eterna prestazione, o al suo opposto, a una fissazione nel dolore, nell’inadeguatezza, nella sensazione di essere “troppo” o “non abbastanza”.

L’unica via d’uscita è abbracciare la propria normalità.
Non intesa come mediocrità, ma come condizione umana condivisa.

Riconoscere di non essere né più grandi né più piccoli degli altri: semplicemente umani.
Fatti di limiti, di desideri, di errori e di speranze comuni.

Questo atto di coraggioso realismo ci libera dalla pressione di dover costantemente dimostrare o giustificare la propria esistenza attraverso l’eccezionalità.

Accettare di non essere “speciali”, né nel bene né nel male, significa tornare a casa.
Significa accedere a una forma di pace profonda che nasce dall’intimità con la propria realtà, senza interpretazioni eroiche né tragiche.

In quella quiete si può cominciare davvero a vivere.

E forse, proprio lì, nel cuore dell’ordinario, può nascere qualcosa di autentico.

Non più eccezionale, ma vero.

(Arte: Elisa Talentino)

Se è la relazione ciò che cura, allora la relazione tra paziente e terapeuta diventa il centro vivo del lavoro terapeuti...
03/07/2025

Se è la relazione ciò che cura, allora la relazione tra paziente e terapeuta diventa il centro vivo del lavoro terapeutico, non un semplice contenitore.

È in questo spazio condiviso che emergono, spesso in modo implicito, le modalità relazionali abituali del paziente: i suoi schemi, le sue difese, i suoi modi di chiedere vicinanza o temere l'intimità.

Il compito del terapeuta è quindi quello di abitare con autenticità e consapevolezza la relazione, portando l’attenzione su ciò che accade tra sé e il paziente.

È attraverso questa lente che diventa possibile aiutare il paziente a vedere come contribuisce alla propria sofferenza, non solo attraverso i racconti che porta in seduta, quanto attraverso il modo in cui si mette in relazione nel qui e ora.

La relazione terapeutica diventa così un luogo di verità e di possibilità: uno specchio in cui il paziente può riconoscere se stesso, e iniziare a scegliere nuovi modi di essere con l’altro e con sé.

(Arte: Marisa Maestre)

Apologia dell’imperdibilità: vuoto e fame esperienziale.Viviamo in un tempo in cui ogni evento viene presentato come imp...
30/06/2025

Apologia dell’imperdibilità: vuoto e fame esperienziale.

Viviamo in un tempo in cui ogni evento viene presentato come imperdibile, ogni occasione come unica, ogni esperienza come fondamentale.
L’imperdibilità è diventata non solo una strategia retorica, ma un imperativo esistenziale: "non puoi perdertelo" altrimenti qualcosa in te resterà per sempre incompiuto.

Ma cosa racconta di noi questa narrazione?

Questa retorica affonda le sue radici in una cultura del riempimento, dove il vuoto – fisico, psichico, relazionale – è temuto, negato, perfino demonizzato.
L’idea stessa di mancare un evento, una mostra, un viaggio, una conversazione, genera in molti una sensazione quasi angosciosa, come se qualcosa di vitale venisse sottratto. Ma questa angoscia non nasce dall’evento in sé, bensì da un’incapacità di sostare nel vuoto, di abitarlo senza doverlo saturare compulsivamente.

Il bisogno di "non perdere nulla" è come una fame bulimica di esperienze. Non si tratta di nutrirsi per bisogno, ma di ingoiare per colmare un’assenza interna, un senso di incompletezza mai digerito. L'agenda si affolla di eventi, gli spazi si saturano di stimoli, il tempo viene masticato senza tregua.

Non si vive per essere presenti a sé, ma per esserci ovunque, con la paura costante che qualcosa di importante ci stia sfuggendo.

Ma chi ha deciso che tutto è imperdibile?

Non è forse una trovata di marketing travestita da esigenza autentica? La pubblicità lo sa: se ti convinco che non puoi permetterti di mancare, ti sto vendendo non un prodotto, ma un pezzo della tua identità.
Non partecipi a un evento, confermi di esistere.
Ma questo non è un bisogno genuino: è una paura indotta. Paura che, se ti fermi, perdi. Ma perdi cosa, esattamente?

In realtà, l’esperienza della mancanza è parte integrante della maturazione psichica. Imparare a stare nel vuoto – nel silenzio, nella solitudine, nella noia, nel tempo non riempito – è ciò che consente il passaggio da un'esistenza infantile, dipendente e reattiva, a una adulta, consapevole e scelta.

L’adulto sa che la vita è fatta anche di assenze, di occasioni perdute, di non detti, di stanze vuote.
E sa che è proprio da lì, da quelle mancanze, che potrebbe nascere qualcosa di nuovo: desiderio autentico, discernimento, libertà.

Saper perdere qualcosa – una festa, una tendenza, un’opportunità – è l’atto più rivoluzionario e adulto che si possa compiere oggi. È un’affermazione di padronanza sul proprio tempo, sul proprio desiderio, sulla propria interiorità.

E allora: chi l’ha detto che tutto è imperdibile?

Chi ci ha venduto l’idea che vivere significhi non perdersi nulla, anziché ritrovarsi in qualcosa?

Forse è il momento di disobbedire a questa narrazione. Di restare, ogni tanto, a casa. Di perdere un evento, un trend, un aggiornamento. Di perdere per scegliere. Di vuotarsi per sentire.

Di mancare, e di permettersi di sentire la mancanza, per esistere davvero, paradossalmente in maniera più autentica e piena.

In questa vita non è difficile morire.Vivere è di gran lunga più difficile.-V. Majakovskij
21/06/2025

In questa vita non è difficile morire.
Vivere è di gran lunga più difficile.

-V. Majakovskij

IL CAPITALISMO COME ANESTETICO DELL'ANGOSCIA: LA TRASFORMAZIONE DEL VUOTO IN DESIDERIO.Ogni essere umano, presto o tardi...
04/06/2025

IL CAPITALISMO COME ANESTETICO DELL'ANGOSCIA: LA TRASFORMAZIONE DEL VUOTO IN DESIDERIO.

Ogni essere umano, presto o tardi, si confronta con una domanda radicale: "Che senso ha tutto questo?"

Non è una domanda che chiede una soluzione.
È una domanda che invoca un senso.

È la voce dell’angoscia esistenziale, quella percezione originaria di trovarsi in un mondo privo di istruzioni, libero ma anche esposto alla morte, al tempo e all’assenza di significato.

Come risposta simbolica e difensiva a questa angoscia, subentra il capitalismo. Che nasce non solo come struttura economica, ma anche dall’urgenza umana di dare forma a ciò che è indefinito, di incanalare il vuoto in qualcosa che si possa vedere, possedere, misurare. Qualcosa di controllabile.

Invece di restare nell’angoscia, che è senza oggetto ed informe, e pertanto spaventosa, il capitalismo la traduce in mancanza concreta, in desideri strutturati: l’oggetto da avere, il traguardo da raggiungere, l’identità da costruire, le persone di cui circondarsi.

Questa trasformazione permette al mercato di entrare in scena: se il vuoto viene convertito in desiderio, può essere riempito con prodotti, esperienze, persone.

Non desideriamo davvero l’oggetto ma il sollievo simbolico che immaginiamo possa offrirci.
Così nasce una dinamica permanente di compensazione. Ma l’appagamento è destinato a svanire, e il ciclo ricomincia.

Anche l’imperativo alla produttività funziona come difesa psicologica: essere sempre impegnati ed efficienti protegge dal confronto con se stessi.

L’uomo moderno, come sosteneva Fromm, teme più la noia che la povertà, più il vuoto che il dolore. E riempie ogni spazio pur di non ascoltare quella voce scomoda che chiede: "Chi sei, quando smetti di fare?"

Il capitalismo ci invita a credere di essere liberi, di avere libertà di scelta, di reinventarci, consumare, ma è una libertà senza profondità, che si costruisce su desideri che spesso non ci appartengono.
La soggettività viene modellata dal mercato. E in questo processo, l’individuo rischia di smarrire la propria autenticità.

Ma l’angoscia non scompare: viene solo sedata, distratta, bene che vada posticipata.

Riconoscere tutto questo non significa rifiutare il mondo moderno, ma iniziare un percorso di consapevolezza più radicale.

Non per forza ogni desiderio è falso, ma ogni desiderio va interrogato: è mio o mi è stato indotto? Serve a colmare un vuoto o a evitarlo? E se provassi a restare nel vuoto, senza subito riempirlo?

L’angoscia esistenziale non è una patologia da eliminare, ma una soglia da attraversare, o forse solo un vissuto da imparare a sostenere.

È la voce più profonda che ci invita a fermarci, abitare il silenzio, e forse lì, finalmente, trovare un senso che nessun mercato potrà mai vendere.

(Arte: Erica Pagnoni)

Capita spesso che chi intraprende un percorso psicoterapeutico si avvicini con l’aspettativa, comprensibile ma talvolta ...
21/05/2025

Capita spesso che chi intraprende un percorso psicoterapeutico si avvicini con l’aspettativa, comprensibile ma talvolta illusoria, di “risolvere” un problema in tempi brevi.
È comune sentire frasi come: “Dopo qualche seduta non ho visto cambiamenti, quindi ho lasciato”.

Questa affermazione, se da un lato racconta una frustrazione autentica, dall’altro rivela una concezione della terapia come intervento correttivo rapido, simile a una medicina sintomatica.

Ma la psicoterapia, nella sua essenza, è un processo ben diverso.

Molto spesso, i motivi che portano una persona in seduta non sono recenti. Sono il frutto di dinamiche antiche, esperienze precoci, modelli relazionali interiorizzati, strategie di sopravvivenza emotiva che, con il tempo, si sono consolidate fino a diventare tratti stabili del modo di pensare, sentire e agire.

Queste cristallizzazioni – abitudini, attitudini, credenze – non si sciolgono in poche settimane.

Sono strutture che hanno protetto la persona per anni, e proprio per questo richiedono rispetto, comprensione e tempo per essere messe in discussione.

La terapia, allora, non è una scorciatoia.
È un cammino di conoscenza di sé.
Un processo che invita la persona a rallentare, a guardarsi con occhi nuovi, a riconoscere i bisogni profondi che stanno alla base di certi comportamenti e a trovare, insieme al terapeuta, modalità alternative e più funzionali per prendersene cura.

A volte è solo dopo molte sedute che si comincia a intravedere il senso del malessere, a dare un nome a ciò che si è sempre dato per scontato.

Ed è proprio in quel momento che il lavoro comincia davvero.

“Non ho risolto nulla” può trasformarsi, col tempo, in “sto imparando a conoscermi”, “sto capendo cosa mi serve davvero”, “sto iniziando a fare spazio a parti di me che non avevo mai ascoltato”.
Questo è il vero cambiamento: sottile, profondo, duraturo.

La terapia non è un luogo dove si “aggiustano” problemi, ma un viaggio – spesso difficile ma prezioso – verso un modo più consapevole, libero e gentile di stare con se stessi.

(Arte: Elin Manon)

Molto probabilmente la gente non pensa che nascere sia un miracolo, ci sono 40 milioni di possibilità che nasca qualcun ...
14/05/2025

Molto probabilmente la gente non pensa che nascere sia un miracolo, ci sono 40 milioni di possibilità che nasca qualcun altro al tuo posto..ed invece è toccato a te.

Ma la vita finisce, se ne va..

Il problema è: a cosa dedichi il tempo della tua vita?
Come spendi il miracolo di essere nato?

Se non ti poni la domanda, non ti preoccupare, ci penserà il mercato a farlo e passerai tutta la tua vita a pagare le bollette e comprando cose finché non sarai un vecchio distrutto.

E tu non compri con i soldi.
Compri con il tempo della tua vita che hai speso per avere quei soldi.

Ma il tempo della vita non si rinnova..

-José Pepe Mujica

IL PATTO INTERIORE: LA CHIAVE DEL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO.In un percorso terapeutico, la motivazione è importante, ma ci...
13/05/2025

IL PATTO INTERIORE: LA CHIAVE DEL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO.

In un percorso terapeutico, la motivazione è importante, ma ciò che davvero sostiene il cammino nel tempo è il patto che la persona decide di fare con se stessa.
Non si tratta solo di voler stare meglio, ma di scegliere consapevolmente di affrontare ciò che fa male, ciò che blocca, ciò che si è evitato a lungo.

Questo impegno interno è un atto di responsabilità e di cura verso la propria vita.

Il patto con se stessi è la decisione di non tirarsi indietro di fronte alla fatica del cambiamento.
È la promessa di non lasciarsi definire da automatismi, schemi difensivi e atteggiamenti rigidi che, anche se rassicuranti, impediscono di vivere con pienezza e autenticità.

È dire a se stessi: “Mi assumo il compito di guardarmi con onestà e di restare, anche quando sarebbe più facile fuggire”.

Gli ostacoli, in un percorso terapeutico, non mancano: la paura del nuovo, la tentazione di tornare a ciò che è familiare, il dubbio che nulla possa cambiare davvero. Ma proprio in questi momenti, il valore del patto interiore emerge con forza.

È ciò che permette di superare le resistenze, di attraversare il dolore trasformandolo in consapevolezza, di scegliere ogni giorno di essere presenti a se stessi.

In questo senso, la terapia non è solo un percorso tra paziente e terapeuta, ma un cammino di lealtà verso la propria parte più vera.

E questo impegno silenzioso, ma potente, è ciò che rende possibile il cambiamento.

(Arte: Matisse)

Se uno guarda sempre e solo lontano, non vede quello che ha davanti ai piedi, e finisce per inciampare. Ma anche concent...
17/04/2025

Se uno guarda sempre e solo lontano, non vede quello che ha davanti ai piedi, e finisce per inciampare.
Ma anche concentrarsi solo sui piccoli dettagli che si hanno sotto il naso non va bene.
Se non si guarda un po’ oltre, si va a sb****re contro qualcosa.

Perciò è meglio sbrigare le proprie faccende guardando davanti a sé quanto basta e seguendo l'ordine stabilito passo dopo passo.

Questo, in tutte le cose, è il punto fondamentale.

-Haruki Murakami

(Arte: Amanda Cass)

Indirizzo

Via Martiri Della Libertà 13
San Giorgio A Cremano
80046

Orario di apertura

Lunedì 08:00 - 21:00
Martedì 08:00 - 21:00
Mercoledì 08:00 - 21:00
Giovedì 08:00 - 21:00
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Telefono

+393312147915

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