10/10/2025
“La relazione tra il terapeuta e la persona che gli chiede aiuto è diversa da ogni altra forma di rapporto umano perché si svolge in un contesto specifico, il setting, modulato da regole precise e finalizzato al cambiamento, inteso come miglioramento significativo e concreto dell’equilibrio psicologico, che include la risoluzione dei problemi che hanno motivato la psicoterapia.
Perciò si può dire che la relazione psicoterapeutica, quando funziona, è nutrita dal cambiamento maturato fase dopo fase, seduta dopo seduta, e che si realizza appieno quando la persona, consolidati i risultati, è pronta al distacco.
Uno dei compiti difficili del terapeuta è incoraggiare amorevolmente all’autonomia e realizzare quelle condizioni ottimali per cui la psicoterapia si concluda con efficacia nel minor tempo possibile. Dunque, la fine di una relazione terapeutica non deve e non può essere traumatica, ma rappresentare un momento felice e convalidare il cambiamento, stabile e funzionale, conseguito durante il percorso.
Gioia, commozione e speranza. Quando una persona con cui ho lavorato lascia il mio studio per l’ultima volta sono abituato a sentire, tutte insieme, gioia, commozione e speranza.
Gioia, perché sento e vedo la bellezza del cambiamento, ricordo con precisione fotografica il “prima” e il “dopo” la terapia e ho un’idea precisa della linea ondulatoria, ma continua e ascendente, che si è inscritta nella sua vita, e nella mia vita, dopo ogni incontro.
Commozione, perché l’amore che nutro per le persone con cui lavoro è forte, ed è l’amore che per tutta la terapia mi spinge a restare nel setting, a colludere il meno possibile con le difese inevitabilmente opposte al processo terapeutico e, a volte, a sembrare duro e intransigente.
Speranza, perché quando una terapia finisce la persona incontrerà inevitabilmente nuove situazioni che potrebbero attivare “schemi disadattivi” e dovrà, da sola, gestirle e orientarsi verso quelle condizioni di auto-realizzazione, che sono sempre il tema finale della psicoterapia.
Poi, ho la certezza che, anche dopo molto tempo, chi ha fatto una psicoterapia efficace sappia, se necessario, chiedere di nuovo aiuto. Perché i dinamismi della vita sono imponderabili, e chiunque abbia capito qualcosa di se stesso, lo sa.
Capita, soprattutto nel periodo natalizio, che riceva cartoline d’auguri o email, da persone seguite anche dodici anni fa che, con l’occasione degli auguri, mi raccontano che ogni cosa ancora va bene, che i fantasmi e i mostri che avevamo allontanato continuano a stare alla larga, che la depressione, il panico, il disamore e il mal d’amore, sono quello che devono essere: passaggi, occasioni di svincolo, traiettorie da sorpassare sulla via della felicità.
Tra me e me, anche nell’esperienza delle mie psicoterapie personali, so che il rapporto col terapeuta, quando è buono, non finisce mai. Che lo si porta dentro, lo si interiorizza al punto di poter fare a meno della sua presenza fisica e delle sedute. Che viene sostituito da un “terapeuta interno” efficiente e amorevole. E questo è il massimo obiettivo di una relazione d’aiuto.
Nell’ultima seduta, spiego sempre che io ci sarò in caso di necessità, e che la terapia che finisce davvero, in fondo non finisce mai. Nel senso che io, come essere umano e come terapeuta, resto legato a chi ho seguito, professionalmente e personalmente, e che sono consapevole che un sentimento simile da parte dell’altro sia sano e costruttivo. Nella realtà, accade che, dopo molti anni, qualcuno torni in consulenza per questioni diverse da quelle che ci avevano fatti conoscere e, in genere, bastano pochi incontri per conseguire risultati, quando, se le stesse problematiche si fossero verificate in passato, avremmo dovuto lavorare più duramente.”