
02/10/2025
"Accomodiamoci" è una parola semplice, quotidiana, quasi scontata. La diciamo senza pensarci, come un gesto di cortesia. Eppure, dentro quella formula gentile si nasconde una delle chiavi più profonde della relazione d’aiuto.
Quando il professionista invita a “accomodarsi”, non sta semplicemente indicando una sedia: sta aprendo uno spazio. È un invito a entrare, non solo in una stanza, ma in un tempo sospeso, diverso dal ritmo concitato del fuori. È un invito a sostare.
“Stare comodi” non significa semplicemente trovare la posizione giusta per il corpo; è un gesto che riguarda anche l’anima. Significa poter posare le difese, lasciare a terra ciò che pesa, permettersi di respirare. Significa dire, implicitamente: “Qui puoi rallentare. Qui non devi correre, non devi fingere. Qui puoi essere.”
Per il professionista, “accomodiamoci” è il condividere uno spazio che non è né neutro né distaccato, ma abitato da due persone che si incontrano con intenzione e cura.
La comodità è la condizione necessaria perché qualcosa accada: solo quando il corpo si rilassa, la mente può aprirsi; solo quando ci si sente accolti, si può osare raccontare.
“Accomodiamoci”, allora, è un piccolo rito che segna l’ingresso nella relazione d’aiuto: è il momento in cui ci si siede non solo l’uno di fronte all’altro, ma insieme dentro uno spazio terzo, quello dell’ascolto, della ricerca, della possibilità di trasformazione.
E forse, a pensarci bene, in quella parola c’è già tutto il senso profondo del nostro lavoro: creare luoghi — fisici, emotivi e simbolici — dove le persone possano, almeno per un po’, stare comode dentro di sé.