23/07/2018
Monastero di Santa Croce dei Conti Atti:
“nullus locus sine genio” (cit. Servio, commento all’Eneide)
E’ l’Appennino centrale, la zona preferenzialmente interessata dall’espansione del maggior numero di siti Camaldolesi, che cominciano a fiorire tra l’XI° e il XII° secolo nella fascia compresa tra Toscana, Umbria e Marche, a partire da quella che è la prima casa madre, l’Eremo di Camaldoli, creazione del finire della vita di un san Romualdo ormai stanco e malato, ispiratore-fondatore della congregazione monastica benedettina Camaldolese, ricongiunto a Dio nel 1024 ad un’età di all’incirca 74 anni.
Nel cuore e nella visione di questo grandissimo santo eremita errante, già monaco benedettino tormentato dalla condizione per lui caotica e corrotta del mondo, nonché dall’imperfetta aderenza all’osservazione della Regola di san Benedetto cui lui stesso appartiene e che professa, il maltrattamento della quale gli genera ricorrenti crisi e sofferenze, vi è forte la necessità e l’aspirazione a coltivare una forma di coesistenza tra il ritiro eremitico celebrato in seno alla natura e al silenzio proprio del monachesimo orientale dei Padri del Deserto, e la vita cenobitica tipica e centrale del monastero benedettino, microcosmo attivo e pulsante attrezzato di biblioteca, refettorio, dormitori, chiostro e foresterie. E’ a questa sintesi salvifica che egli aspira, ed è questa fusione che otterrà negli anni con il suo slancio, motivato forse più da una reale necessità di sopravvivenza e da una testimonianza della veridicità della sua fede, che da un progetto di idee, come spesso accade nella vita di molti santi che si trovano -proprio malgrado- a finire travolti da esigenze strutturali e terrene sulla via del proprio perfezionamento spirituale (vedi San Francesco d’Assisi un secolo più avanti). Solitudine e vita di comunità sono ben rappresentate anche in quello che diventerà il simbolo duale della congregazione Camaldolese: 2 colombe bianche s’abbeverano ad uno stesso calice, a suggellare la doppia natura della loro interpretazione e relazione col divino.
E quando di eremitismo e ritiro si parla, non si può non sviluppare il tema dei “luoghi dello spirito”: perché immersione silenziosa e sposalizio con la natura che è Madre, rivestono condizioni ideali per la collocazione del monaco che si è votato a Dio Padre, che gli ha concesso in cambio il dono più grande, la contemplazione ed esplorazione del Creato e della Terra, e, di conseguenza la loro cura. Il monaco perciò si ritira nel suo silenzio per ascoltare e contemplare il divino, protetto dal respiro della Creazione di Dio stesso.
La spiritualità dei Camaldolesi (e di conseguenza anche l’architettura dei loro monasteri) è fortemente influenzata dal rapporto con l’ambiente e la natura. Il legame con le foreste è fortissimo, in quanto esse rappresentano le entità garanti delle condizioni necessarie a preservare tranquillità e autonomia dei monaci: ritiro, silenzio, non ultime forme di autosufficienza, così come anche i
pascoli e i terreni vicini. I monaci Camaldolesi diventano curatori e preservatori delle foreste, fino a giungere ad un’identificazione spirituale strettissima con gli alberi, chiaramente espressa nel capitolo “De significatione septorum arborum” del “Liber eremiticae Regules” del XII secolo, nel quale si suggerisce al monaco di percorrere la via delle perfezione tramite l’imitazione-ispirazione diretta degli alberi. Facendo riferimento ai 7 alberi già citati nella Bibbia nel libro del profeta Isaia, si invita il monaco a:
-assimilare sé stesso al cedro del Libano per la fecondità delle opere e per fiorire nella letizia, essere sempre sincero e dignitoso;
-riparare e ripararsi per correggere adeguatamente la propria pratica e conversione così come il biancospino assicura la Vigna del Signore dalle incursioni degli intrusi per messo di siepi spinose; -ispirarsi alle proprietà sedative del mirto per la moderazione, mantenendo una certa sobrietà; -come l’olivo divenire messaggero di gioia, pace, consolazione e pietà;
-come l’abete svettare nell’altezza della propria contemplazione raggiungendo la Verità più elevata; -come l’olmo fungere da sostegno nel sorreggere il peso delle opere del Signore, trattandosi di una pianta spesso adoperata come tutore delle viti stracolme di grappoli;
-come il bosso rimanere basso e di un verde perenne, tale da conservare duratura la propria umiltà.
Il Monastero di Santa Croce, costruito per i monaci Calmadolesi provenienti dalla vicina Abbazia di San Vittore delle Chiuse già nel XII° secolo dai Conti Atti, signori del luogo e nobile famiglia di origine longobarda, è situato appena sopra il centro del comune di Sassoferrato (AN), alle pendici di un colle che si raggiunge tramite una stradina sterrata che si genera ed inerpica dopo aver abbandonato una strada senza nome che costeggia il torrente Sentino. La vallata su cui poggia Sassoferrato si estende tra altezze tra i 300 e i 400 m.s.m., ed è erosa da 3 torrenti di cui il maggiore è appunto il Sentino, ricco di trote, nel quale confluiscono gli altri 2, il Sanguerone e la Marena. Il fluire delle acque genera spontaneamente sulle sponde alberi come querce, faggi e orni.
Benché nei secoli la condizione delle colline sia inevitabilmente cambiata a causa dei mutamenti climatici, dell’avvicendarsi temporale delle storiche politiche dell’ambiente e delle trasformazioni edilizie, questo monastero rappresenta appieno, nella sua collocazione e identità, l’approccio spirituale della congregazione Camaldolese cui venne destinato: lo sposalizio con Madre Natura nell’adorazione di Dio Padre, e l’esigenza di ritiro e distanza dalle trappole effimere della mondanità pur costituendo una comunità autonoma quale in effetti un monastero poteva allora rappresentare, non solo per i monaci che lo popolavano, ma anche per i pellegrini e i viandanti.
I Monasteri Camaldolesi del tempo vennero infatti edificati in quegli anni nelle vicinanze delle principali vie consolari e romee o delle loro diramazioni, come ad esempio in questo caso. Nella fattispecie, dal Monastero di Santa Croce si poteva raggiungere la via Flaminia tramite il passo della Scheggia a circa 25 km di distanza. La via consolare Flaminia, che collegava Rimini a Roma, era spesso percorsa da pellegrini bisognosi di soste e riposo presso i monasteri incontrati sulla strada. E sempre tramite una bretella della Flaminia, non era infrequente l’itinerario opposto verso il porto di Ancona, in vista di imbarcarsi per la Terra Santa.
Colpisce oggi constatare come utilizzare espressioni tipiche del parlare contemporaneo, quali identificazioni popolari di questi eremi, monasteri e chiese in qualità di “luoghi dello spirito”, oppure riferimenti peculiari dell’architettura moderna rievocante il concetto di Genius Loci per alludere all’identità in senso lato e trasversale di un preciso luogo, equivalga letteralmente a trasporre o modernizzare - se non addirittura surrogare – un principio con il quale nella religione Romana era consuetudine rapportarsi: quel sacralizzare un determinato luogo identificandone l’entità o divinità associata deputata a proteggerlo (per l’appunto il Genio del luogo), a fronte di un sacro rispetto e devozione: giacché il Genio del luogo proteggeva sì il suo habitat, ma anche coloro che in esso vivevano. Un’eredità “pagana” che, anche se sotto differenti spoglie e reinterpretazioni, certamente anche la congregazione Camaldolese stessa colse e declinò pienamente, così come appena un secolo più tardi san Francesco d’Assisi, incastonando la voce eterna del divino e la fulgida bellezza della propria vicenda terrena e spirituale nel “Cantico delle creature”.
I rapporti col Genius Loci del Monastero di Santa Croce sono quanto mai stretti ed intrecciati: non solo in virtù delle sue mura pressoché millenarie intrise dell’eco di milioni di orazioni perpetue e di canti gregoriani salmodiati per centinaia di anni trasudanti il fervore di monaci e pellegrini; ma finanche per un sodalizio ben più antico e remoto saldamente intercorso col divino e suggellato in questo luogo, risalente appunto ad una civiltà precedente di quasi un millennio e ad una divinità più arcaica. Roma antica si palesa infatti nei vicini resti dell’antica cittadina di Sentinum, già citata nell’ambito delle cronache storiche del terzo secolo a.C. per la Battaglia delle Nazioni, e nella presenza sottostante la chiesa dell’abbazia di Santa Croce di un Mitreo, tempio cavernoso dedicato al dio Mitra. I Mitrei, la cui costruzione nell’ambito del dominio dell’impero Romano è collocabile tra il I e il III secolo d.C, epoca in cui fiorirono numerosi in tutto l’impero, vennero definitivamente chiusi nel 391 d.C. col decreto dell’imperatore Teodosio che bandì i culti pagani.
Quasi ben 2.000 anni di celebrazioni sacre, prima misteriche e poi pubbliche, emanano oggi, nell’anno 2018, da un medesimo luogo: il Monastero di Santa Croce dei Conti Atti di Sassoferrato.