
05/08/2025
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Odio l’estate. Odio il mese d’agosto fino al giorno di ferragosto. Passato il ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo. Cominciano i temporali d’autunno. Non odio l’estate per il caldo. Non mi accorgo del caldo e non me ne importa niente. Mi ricordo che fa caldo solo quando ne parlano gli altri. In verità ho cercato più volte di spiegarmi perché odio tanto l’estate.
Nell’infanzia l’estate mi piaceva. Era la mia stagione preferita. Mi rallegravo del caldo e delle prime ciliege. L’estate significava andare in villeggiatura. Mia madre, nel fare i bauli, sospirava e sbuffava. Né a lei né ai miei fratelli piaceva andare in villeggiatura. Si annoiavano. Io mi divertivo. La mia felicità era solo un poco offuscata dal malumore di mia madre.
Il giorno della partenza dalla montagna era per me quasi ancora più bello del giorno dell’arrivo. Alla felicità di partire, di salire prima su una corriera e poi su un treno, si univa la sottile e deliziosa tristezza di dire addio all’estate.
A un certo punto, mi accorsi che quelle villeggiature in montagna erano diventate di una noia insopportabile anche per me. Compresi allora che la mia infanzia era finita. Fu allora, in quelle villeggiature solitarie, che io presi a detestare l’estate. Io non trovavo il mondo triste, lo trovavo bellissimo, solo che a me per qualche ragione oscura era vietato di celebrarne le radiose giornate. Così non potevo che cercare e amare l’autunno, l’inverno, il crepuscolo, la pioggia e la notte.
Sappiamo per vecchia esperienza che, dopo ferragosto, il processo sarà finito. I giorni fino al ferragosto ci sembrano eterni. Detestiamo la città vuota nel sole accecante, i cinematografi vuoti dove si danno film di terrore. Detestiamo però più ancora la folla dei treni. Tutti partono, e ci chiedono se anche noi partiremo. Impossibile rispondere, quando siamo nel numero di quelli che non hanno voglia né di partire né di restare.
Natalia Ginzburg, «Vita immaginaria» (Einaudi, 2021).