27/05/2025
Le tolsero la cattedra, il laboratorio, la libertà. Ma non riuscirono a toglierle la mente.
Torino, 1938.
Il regime fascista promulga le leggi razziali.
Agli ebrei è vietato insegnare, lavorare in università, partecipare alla vita pubblica.
Rita Levi-Montalcini, giovane ricercatrice in neurobiologia, è costretta a lasciare tutto.
Ma lei non abbassa la testa.
Compra strumenti di fortuna. Si chiude in casa.
E lì, nella sua camera da letto, costruisce un laboratorio clandestino.
Microscopio sul comodino, bisturi affilati a mano, embrioni di pollo come materiale di ricerca.
Mentre fuori imperversa la guerra, lei studia la crescita delle cellule nervose.
Annota, osserva, sbaglia, riprova.
Non ha uno stipendio, né riconoscimenti.
Solo una fame insaziabile di verità.
Nel 1947, a guerra finita, riceve un invito dagli Stati Uniti.
La Washington University le offre un posto.
Pochi anni dopo, scopre una proteina che cambia tutto:
l’NGF, il fattore di crescita nervoso.
È la chiave per capire come si formano, si sviluppano e si rigenerano i neuroni.
Una scoperta immensa.
Che apre strade nella cura di malattie come l’Alzheimer, il Parkinson, i tumori.
Nel 1986 riceve il Premio Nobel per la Medicina.
La prima donna italiana a riuscirci.
Ma non si ferma lì.
A novant’anni fonda un’organizzazione per dare borse di studio alle giovani scienziate africane.
Entra in Senato a 93 anni.
Si batte per la ricerca, l’istruzione, la libertà.
Morì nel 2012, a 103 anni, lucida e operativa fino all’ultimo giorno.
Disse:
“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: sono la mente.”
Rita Levi-Montalcini ha dimostrato che essere donna, ebrea, scienziata, in tempi ostili, non era una debolezza. Era una rivoluzione.
E oggi, ogni volta che qualcuno parla di cervello, di memoria, di futuro…
c’è una piccola scintilla che porta il suo nome.