Nicoletta Sansone Psicologa e Criminologa

Nicoletta Sansone Psicologa e Criminologa Criminologia
Psicologia Giuridica ed Investigativa
Psicologia Forense
S*x Offender
Vittimologia

27/11/2025

L’ha uccisa a martellate. E quando persino il martello si è rotto, spezzato dalla furia omicida, ha usato una panchina: quelle di ferro dei parchi, dove di solito ci si siede per riprendere fiato e gustarsi una giornata di sole. Magari con gli occhi chiusi. E un sorriso che affiora. Invece quel giorno si è consumata la tragedia di Alessandra Matteuzzi. Il suo nome è stato sulla bocca di tutti per un po’, nel 2022: fu un femminicidio molto discusso – per le modalità, i chiari campanelli di allarme e la lucidità con cui l’ex fidanzato rivendicava il gesto – poi è finita per diventare solo l’ennesima vittima.

A strappare Matteuzzi «dai numeri freddi nella cronaca» ci prova Daniela Collu, in onda stasera alle 22,55 su Sky Crime, Sky Documentaries e in streaming su NOW con Ogni 72 ore – il caso Matteuzzi. Un solo femminicidio dove dentro c’è tutto: dall’apparente stabilità del carnefice all’escalation fino alla vittimizzazione secondaria, perché Alessandra era «colpevole» di avere 30 anni in più del suo fidanzato. «Il racconto che i media fecero all’epoca fu indegno. Volevo che la sua storia non fosse né dimenticata né dimenticabile».

L’intervista di Francesca D’Angelo su La Stampa

25/11/2025

Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, scegliamo di rivolgere l’attenzione a un elemento decisivo e spesso sottovalutato: il linguaggio.
Le scienze psicologiche e sociali mostrano con chiarezza che le parole non sono un semplice strumento descrittivo: influenzano la percezione della violenza, la possibilità di riconoscerla e le strategie per contrastarla.

Esistono espressioni che spostano la responsabilità dalla condotta dell’autore alla condizione della vittima:
«perché non se n’è andata?», «avrebbe dovuto denunciare», «ma com’era vestita?», «stava al gioco».
Queste frasi ignorano dinamiche strutturate e ampiamente documentate: paura, controllo, isolamento, dipendenza emotiva ed economica.

Altre narrazioni giustificano la violenza:
«era stressato», «ha perso la testa», «non era in sé», «era un brutto momento».
Altre ancora la patologizzano impropriamente:
«un raptus», «un blackout», «un impulso incontrollabile».
La letteratura scientifica è chiara: la violenza non è improvvisa, ma segue pattern, escalation e segnali precoci.

Esistono poi le narrazioni che romanticizzano l’abuso:
«amava troppo», «la passione lo ha travolto», «era accecato dall’amore».
E quelle che minimizzano:
«sono litigi familiari», «sono cose che succedono», «un momento di stress».
Infine, ci sono le espressioni che normalizzano culturalmente:
«è fatto così», «è un uomo all’antica», «un carattere forte», «nelle famiglie capita», «un bravo ragazzo che ha sbagliato».
Sono tutte narrazioni che attenuano la responsabilità e rendono l’abuso socialmente tollerabile.

In questo quadro, il ruolo della politica è determinante.
Le istituzioni non possono limitarsi a “commentare” la violenza: devono costruire narrazioni fondate sulle evidenze scientifiche e non su spiegazioni semplicistiche o pseudo-biologiche.
È particolarmente problematico che rappresentanti del governo affermino che "nel codice genetico dell'uomo c'è una resistenza alla parità dei sessi" o che "Non c'è una correlazione fra l'educazione sessuale nella scuola e una diminuzione delle violenze contro le donne".
Attribuire la violenza, o la disparità di genere, a presunte predisposizioni naturali o inevitabili, non solo non trova alcun riscontro scientifico, ma rischia di legittimare proprio ciò che la ricerca contrasta: l’idea che la violenza sia inscritta nella natura, e non costruita nei contesti culturali e relazionali.

Per chi esercita una funzione pubblica, narrazioni non basate sulle evidenze non sono in alcun modo giustificabili: contraddicono la conoscenza, ostacolano la prevenzione e minano la responsabilità istituzionale.

In una giornata che richiama al dovere collettivo di riconoscere e contrastare la violenza, ribadiamo che la precisione linguistica è parte integrante della prevenzione.
Il modo in cui ne parliamo orienta ciò che consideriamo credibile, ciò che vediamo e ciò che siamo disposti a trasformare.

Contrastare la violenza sulle donne significa anche contrastare le parole che la minimizzano, la romanticizzano, la giustificano o la presentano come inevitabile.
Perché le parole non descrivono soltanto il mondo: contribuiscono a costruirlo.
E un linguaggio fondato su scienza, responsabilità e rigore è già un intervento di tutela.

25/11/2025
25/11/2025
25/11/2025

𝐂𝐨𝐧 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐨𝐧𝐝𝐚 𝐭𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐳𝐳𝐚, 𝐥'𝐎𝐫𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐏𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐋𝐨𝐦𝐛𝐚𝐫𝐝𝐢𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞𝐜𝐢𝐩𝐚 𝐚𝐥 𝐜𝐨𝐫𝐝𝐨𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐫𝐬𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐏𝐫𝐨𝐟. 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐄𝐤𝐦𝐚𝐧.

La notizia della sua scomparsa, avvenuta il 17 novembre 2025 all’età di 91 anni, ci colpisce profondamente. Ekman è stato uno dei giganti della psicologia moderna: un pioniere nello studio scientifico delle emozioni e delle espressioni facciali, capace di portare alla luce il carattere universale di molte emozioni attraverso ricerche condotte in culture diverse.

Il suo lavoro ha oltrepassato i confini della ricerca accademica, raggiungendo un pubblico vastissimo grazie a libri come Telling Lies ed Emotions Revealed, che hanno reso comprensibili a tutti le dinamiche emotive più complesse.
Il suo contributo è arrivato anche al grande pubblico grazie alla consulenza per la serie Lie to Me e per il film d’animazione Inside Out, esempi di come la scienza delle emozioni possa dialogare con la società in forme nuove e accessibili.

Oggi, pur nella tristezza della perdita, vogliamo onorare il suo lascito: un patrimonio straordinario di conoscenza, rigore e profonda attenzione alla dignità umana, che continuerà a guidare e ispirare il lavoro di psicologhe, psicologi e professionisti della salute mentale.

25/11/2025

Ulteriore conferma, ce ne fosse ancora bisogno, da uno studio longitudinale dell'Istituto Superiore di Sanità:
"La violenza domestica lascia tracce epigenetiche che modificano l'espressione dei geni, cioè la loro attività [...] Studiarle può permetterci di predire gli effetti a lungo termine della violenza e sviluppare interventi preventivi prima che insorgano patologie croniche".
Il progetto EpiWe, continua l'esperta, "ha portato all'elaborazione di un secondo strumento digitale innovativo, EpiChild, pensato per i bambini e adolescenti: è stato somministrato per ora a 26 minori di 7-17 anni che hanno assistito alla violenza in famiglia, arruolati nel territorio pugliese [...]
Secondo i primi risultati, quasi l'80% dei minori ha vissuto come evento traumatico l'aver assistito a violenze fisiche in famiglia, e sono stati identificati diversi casi di Ptsd e depressione elevata. [...] Lo studio proseguirà con follow-up programmati per monitorare l'evoluzione della sintomatologia della violenza subita, e costruire una base dati per future ricerche sul trauma transgenerazionale".

Infatti le memorie dei traumi sono trasmesse per via alle generazioni successive, non solo per esperienza diretta (che è ovvia).
Ma bisognerà anche cedere all'idea che non serve un trauma per scrivere memoria delle esperienze: i traumi sono marcature notevoli, ma tutto è registrato, produce fisiologia e viene tramandato.
E quando diciamo "fisiologia" intendiamo non l'espressione dei geni fine a se stessa o a sintomi psicologici, bensì che in questi studi varrà la pena prestare attenzione anche ai sintomi organici, che si trascurano a priori.

Come i conflitti dei genitori si tramandano ai figli: https://magazine.5lb.eu/2018/12/conflitti-biologici-generazionali-dei-genitori-ereditati-epigenetica-5287.html

24/11/2025

Secondo il ministro Carlo Nordio, intervenuto alla Conferenza internazionale contro il femminicidio, «Il maschio non accetta la parità, il suo codice genetico fa resistenza». Eppure da anni sul territorio esistono alcuni centri che insistono sulla natura culturale - e non genetica o biologica - della violenza di genere. Si tratta dei Centri per uomini autori di violenza (CUAV) che si occupano della presa in carico di uomini autori di violenza, ma adesso sono al collasso.

In alcuni casi il contatto con il centro avviene su base volontaria, dopo un primo confronto telefonico, altri invece vengono inviati a un CUAV dal giudice. In quest’ultimo caso si tratta di pene inferiori ai tre anni e il lavoro del CUAV sta proprio nel prevenire il rischio di recidive, oltre a quello di combattere la violenza di genere cercando di andare alla radice del problema.

Dopo il primo contatto seguono una serie di colloqui con operatori e operatrici, anche per stabilire il grado di rischio. Da lì si entra a far parte per un anno di un gruppo psico-educativo in cui insieme a un team di psicologi e psicoterapeuti si affrontano anche gli aspetti culturali legati alla mascolinità e si lavora su responsabilità, riconoscimento delle proprie emozioni, fornendo strumenti pratici per gestirle.

In alcuni casi il CUAV lavora insieme anche al Centro antiviolenza, come nel caso di Pistoia. «I CUAV fanno un lavoro strutturale sulla violenza di genere», spiega Flavia Lazzaro, del Centro uomini maltrattanti di Firenze. «Lavoriamo a protezione delle vittime anche potenziali perché il nostro obiettivo è intercettare la violenza quando non è ancora esplosa, cerchiamo di lavorare sui segnali». Stando ai dati del report Impact del 2022, questo tipo di approccio porterebbe alla riduzione della frequenza del comportamento violento, dal punto di vista della violenza fisica ed emotiva.

Al momento, però, i Centri sono al collasso, con accessi triplicati negli ultimi anni e risorse economiche ormai del tutto insufficienti. Dal 2019, con l’entrata in vigore del Codice Rosso, che subordina la sospensione della pena alla partecipazione a un percorso presso un CUAV, le richieste di accesso sono cresciute in modo esponenziale, ma non le risorse economiche.

Inoltre, l’obbligo di incontri bisettimanali previsto dal Codice Rosso rafforzato, sottopone gli operatori a ritmi insostenibili, perché non sono state previste risorse aggiuntive. Il risultato sono liste d’attesa più lunghe - fino a 4 o 6 mesi di attesa - con ricadute sulla prevenzione della violenza di genere. «La vocazione dei Centri per uomini autori di violenza è il cambiamento sociale, non solo la gestione dell’emergenza», spiega Alessandra Pauncz, Presidente Relive – Rete nazionale dei centri per uomini autori di violenza. «Lavoriamo sulle radici della violenza, e per farlo dobbiamo poter offrire opportunità di cambiamento a tutti gli uomini». Perché il violento non è l’eccezione, ma un figlio sano del patriarcato.

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80059

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