23/06/2025
“Nascere legati” — una storia (quasi) dimenticata
Fino agli anni 1950–1960, in alcune valli del Trentino-Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia, nascere non era l’inizio di una libertà. Era, paradossalmente, l’ingresso in una prigione silenziosa e accettata da tutti. Una prigione fatta di stoffa, lacci e fasciature.
Appena veniva al mondo, un neonato non veniva lasciato libero di muoversi. Anzi, il primo gesto compiuto su di lui — spesso dalla levatrice, talvolta dalla nonna — era quello di fasciare il suo corpo come una piccola mummia.
Si iniziava dalle gambe: venivano stese, dritte, con precisione millimetrica, e avvolte strette. Poi si passava al busto e alle braccia, bloccate lungo i fianchi. Infine, il tutto veniva chiuso con bende che salivano fino alle spalle. Il risultato era un fagottino perfetto, immobile, quasi rigido. E lì dentro, il bambino passava ore. Giorni. A volte settimane.
Era una tradizione antichissima. Nessuno la metteva in discussione.
Le madri la ripetevano come le avevano insegnato, con la convinzione di “fare il bene del bambino”: si credeva che così le gambe crescessero dritte, che si evitassero malformazioni, che il bambino dormisse meglio. Era anche una forma di praticità per le madri che, con altri figli da accudire e campi da lavorare, potevano “sistemare” il neonato al sicuro, sapendo che non si sarebbe mosso.
Ma a che prezzo?
Il cambiamento non fu facile. La svolta arrivò solo negli anni ’50, grazie al coraggio silenzioso di alcune persone che decisero di ascoltare prima di imporre.
Uno di loro fu il dottor Fabiani, un giovane medico inviato in un piccolo paese del Friuli per sostituire un medico condotto anziano. Quest’ultimo era rispettato da tutti, ma anche fermamente ancorato alle pratiche mediche dell’Ottocento. Nonostante la sua autorevolezza, non aveva mai messo in dubbio le fasciature.
Fabiani, invece, era diverso. Aveva studiato a Padova, conosceva le nuove teorie sullo sviluppo psicomotorio dei neonati, e sapeva che quei metodi non erano più solo superati… erano dannosi.
Ma non puntò il dito. Non giudicò. Iniziò a visitare casa per casa, a parlare con le madri, a sedersi nelle cucine, tra le pentole e i grembiuli, senza mai alzare la voce. Portava esempi, mostrava illustrazioni, ascoltava le paure. Non impose la scienza: la accompagnò con rispetto.
Al suo fianco c’era una figura fondamentale: Norma Marcuzzi, la levatrice del paese. Aveva fatto nascere centinaia di bambini, ed era considerata quasi una figura sacra. Quando anche lei iniziò ad appoggiare le parole di Fabiani, le donne cominciarono a fidarsi.
Così, a poco a poco, una pratica secolare scomparve. Silenziosamente, senza rivoluzioni, senza scontri. Solo grazie alla forza della fiducia, del dialogo, e della delicatezza.
Oggi, guardando indietro, sembra impossibile pensare che neonati venissero fasciati così stretti, e per tanto tempo. Ma è anche una lezione importante: non basta avere ragione per cambiare il mondo. Serve empatia, tempo e il coraggio di entrare nel cuore delle tradizioni — anche quelle sbagliate — senza calpestarle, ma trasformandole con amore.
Perché sì: anche una fasciatura può essere sciolta. Ma solo da mani che sanno accarezzare.
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