03/01/2022
Per l'ultimo giorno dell'anno Nicolò ci fa dono del suo racconto più intimo.
Con coraggio n**o davanti allo specchio riflette sulla fine, sull'inizio e sui bivi che ognuno di noi può incontrare sul cammino. A chiunque si trovi oggi avvolto dal dolore, possa il suo racconto arrivare come uno sguardo fraterno, amico, che allevia la solitudine fino a domani, all'alba di uno dei tanti inizi possibili.
Non è successo niente
Quando avevo ventidue anni ho provato a suicidarmi.
Aspettate, m’hanno detto di farla divertente.
Un uomo entra in un caffè, quando aveva ventidue anni ha provato a suicidarsi.
Ci ho provato perché, in quel periodo, ero assolutamente convinto fosse la cosa migliore per me.
Di questa faccenda ne ho accennato ogni tanto nelle mie storielle, ma concretamente nessuno sa niente.
Mia madre, per esempio, lo legge qua, ora, sulla pagina Facebook dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi del Veneto. La cosa, immagino, renderà assai particolare il resto della giornata.
Insomma, ho ventidue anni e decido che voglio farla finita. Tanta gente che s’ammazza lo fa d’istinto, magari ce l’ha dentro da un po’, un giorno vede un Frecciarossa che gli ispira e supera la linea gialla. Altri pianificano, progettano, si titillano col pensiero per mesi, anni, come se dovessero decidere quale friggitrice ad aria comprare o se rifare o no il pavimento della cucina.
Io, per forza di cose, l’ho dovuto pianificare.
Vedete, essendo figlio di un certo tipo di giochi di ruolo sono una persona fortemente restia a prendere decisioni importanti senza prima aver vagliato tutte le opportunità a mia disposizione. Perciò ho fatto quello che avrei fatto se avessi dovuto comprare la friggitrice: un bel giro su internet.
Ci sono un sacco di siti (soprattutto in inglese) che spiegano in modo esaurientemente grottesco come ammazzarsi senza dolore. Dal tagliarsi le vene al monossido di carbonio fino al numero di caffè al giorno necessari per ridare l’anima (per un uomo sono 156), la questione della morte autoindotta è esaminata da ogni prospettiva. Ne risultano tante piccole smartbox esperienziali ricche di consigli e opzioni per il trapasso.
Dopo averle vagliate attentamente, quella che mi creava meno turbamento e imbarazzo, e che soprattutto richiedeva il minor numero di seccature per essere messa in atto, era l’impiccamento.
Sorgeva un problema. Io sono un metro e novantasette d’altezza e il soffitto di casa si è rivelato decisamente inadeguato alle mie esigenze su***de. L’idea di approfittare con una scusa della casa di amici o parenti mi sembrava, al pari di usarne il bagno per sfogare una lunga stitichezza, poco educato.
Qui nel testo originale c’era tutta una sezione in cui, partendo da una spedizione al Bricocenter, spiegavo in una dettagliata sequenza alla Ocean’s Eleven le modalità e i passaggi con cui ho messo in atto il mio tentativo di suicidio. Visto che non sono un irresponsabile id**ta egoriferito solo nella vita, ma anche sulla carta, quando ho scritto questa parte ho allegramente ignorato l’eventualità che ciò potesse dare adito a tentativi d’imitazione. Spesso quello che basta è una spinta o uno spunto. E io uno spunto non lo voglio dare. Perciò glissiamo. Vi basti sapere che si trattava di una modalità che negli anni ho scoperto, con un certo imbarazzo, essere pratica autoerotica diffusa. Per qualche strano motivo (e per mamma) sento di dover specificare che non era questo il caso.
Insomma se hai fatto tutto Nicolò, com’è che sei qui a farci il pippotto gramelloso invece che star lassù a insegnare agli angeli come perdere il dono della sintesi?
Perché ho avuto paura. Paura da pisciarmi addosso. Paura di morire, paura del dolore, paura di lasciarmi andare, non saprei. Fatto sta che mi son tolto tutto, ho vomitato niente, sono uscito di casa e, per ragioni che al momento mi sfuggono ma sicuramente legate a un concetto piuttosto distorto di arma del delitto, sono andato a buttare tutta l’attrezzatura in un cestino a sei chilometri di distanza. Non ci ho più riprovato, ma ci ho pensato spesso. Fine.
Ora, voi giustamente mi direte: sottospecie di emo bagonghi, perché devi rovinarci l’ultimo dell’anno? Non potevi inventarti una storiella scema su uno psicologo petomane che poi ce ne andavamo tutti allegri al cenone?
Chiariamoci, ho cercato di raccontarla nel modo più demenziale possibile. L’ultima cosa che voglio è che parta la musichetta di Masterchef quando si scopre che quello che sta cucinando i cappelletti in brodo ha la sindrome di Guillain-Barré costringendovi di conseguenza a strizzare fuori un po’ di lacrime. Mi piacerebbe, invece, approfittare dell’ultimo post dell’anno per provare a fare in extremis un discorso serio.
Un discorso sulla fine, sull’inizio e sullo stare bene.
Io non so perché la gente s’ammazza. Conosco le motivazioni dietro al mio tentativo e non so dire se, a distanza di anni, siano o meno risibili. Nonostante tutto credo che, indipendentemente dal giudizio che si vuole dare a un gesto del genere, niente giustifica e mai giustificherà lo st***zo che batte il piede e si lamenta per il ritardo del treno o la metro bloccata.
I motivi dietro un suicidio sono infiniti, ma credo che molti abbiano a che fare con le fini, con gli inizi e con una vaga presa di coscienza che ci arriva piano piano mentre diventiamo adulti, cioè:
stare bene non è la nostra condizione naturale.
Non so come, ma nella testa di molti si forma questa strana idea secondo cui la serenità e l’equilibrio sono la nostra configurazione di base, l’assetto con cui usciamo dalla confezione. Di conseguenza, se stare bene è la prassi, stare male diventa un’anomalia, una disfunzione, qualcosa che ci fa scivolare via dai binari della normalità lasciandoci soli e sbagliati.
In un mondo dove tutti sono invitati costantemente a dimostrare funzionalità e armonia, è facile che il nostro dolore non solo ci faccia sentire scollegati dal resto, ma diventi una vergogna da tenere segreta.
Insomma, per la maggior parte delle persone stare bene è un traguardo da raggiungere quotidianamente, una montagna che viene scalata ogni giorno nella speranza di arrivare più vicini possibile alla vetta senza esaurire l’ossigeno.
Quindi? Quindi domani è l’anno nuovo e noi siamo tutti qui gonfi di ansie, paure, rimpianti, ma pure di gioie e soddisfazioni, ci mancherebbe. Ecco, in bilico tra fine e inizio (o inizio e fine), io volevo solo ricordarvi che avete il diritto di stare male, di avere paura, di non farcela più, di cambiare idea su voi stessi e sul mondo. Volevo ricordarvi che il dolore non è una questione personale, che quelli che vi dicono che la vita è una magica avventura al sapore di pistacchio sono stupidi o in malafede, e che tutti i vostri abissi sono giustificati. Volevo ricordarvi, infine, che lì fuori troverete quasi sempre aiuto, e che vale la pena cercarlo.
Augurarvi un anno felice mi sembrerebbe un po’ in contraddizione col pi***ne di cui sopra, perciò ve ne auguro uno che tenga il vostro passo, che vi permetta di rallentare, fermarvi e ricominciare.
E se non va così, vi auguro di poterlo cambiare.
Aggiornamento dell’ultima ora:
pare che il bonus psicologo previsto nella nuova legge di bilancio non sia passato in favore di altri ritenuti più importanti. Perciò, in futuro, cercare quell’aiuto sarà un po’ più difficile.
Quindi se un domani sentite di non farcela più, di essere soli, pesanti, in equilibrio su un vuoto senza fondo, ascoltate il mio consiglio: compratevi un monopattino.