
31/07/2022
QUANDO IL TERAPEUTA SBAGLIA… EDIPO E LA SFINGE
“Con un'opera d'arte bisogna avere il comportamento che si ha con un gran signore: mettervisi di fronte e aspettare che ci dica qualcosa” (Arthur Schopenauer)
Ogni paziente è un opera d’arte, ognuno di noi lo è, allora impariamo ad attendere di dirci qualcosa.
Provate a pensarci… concentratevi solo per un momento…
Sapete cosa è una rêverie? Immagino di si ma pensateci un attimo… come quando hai guidato per decine di chilometri e, d’un tratto, come fosse un’epifania, ti ritrovi a parcheggiare sotto casa.
Oibò! Ti dici… chi mai ti ha condotto fin lì? Quale angelo ha tenuto lontano da te le moto, gli animali, i camion, i meteoriti?… Ma soprattutto, quale angelo ha fatto in modo che tu seguissi la giusta strada mentre tu eri altrove? E altrove dove!?
Ok, ok lo ammetto io sono cintura nera di rêverie, anche mentre non guido, magari a scuola davanti al prof, o mentre mio figlio mi chiede di guardare un video su tik tok, oppure alla comunione di mia nipote, oppure ora, dopo che ho pedalato per 20 chilometri fino al monte Cardito.
E quando mio figlio urla e dice ”Papà ma mi stai ascoltando?!!!”
Io ripeto, ancora una volta che “Sto lavorando”, anzi non lo ripeto più perché lui, il mio amato figlio, ormai mi dice direttamente “Papà stai lavorando?”, e lo fa con voce paziente, suadente, semplice, e premurosa. Lo so, lo so un giorno me la farà pagare ma, come disse Aragorn di Aratorn, non è questo è il giorno.
Questo è il giorno in cui, con Battisti, Lucio intendo, negli auricolari stereo, con la bici che per metà pedala al mio posto aiutandomi a fingere di non essere prossimo al mezzo secolo, con il sole che mi sfiora le gote mentre ascolto le bionde trecce, sapendo che non sarà un avventura ma che lo sembrerà… insomma questo è il giorno in cui rivado nella rêverie.
Ed ora, mentre le farfalle colonizzano il mio destriero, mentre un aliante sotto di me fatica a trovare una termica che lo riporti in quota, eccomi a scrivere con le dita che quasi potrebbero toccare il cielo da qui, ed eccomi a confessarvi che le mie rêverie sono dei giullari fastidiosi che alzano le gonne delle dame e che deridono il Re, magari dicendo che la regina si abbraccia con lo stalliere, ed io, che so che nei motti di spirito c’è sempre la verità, fingo insieme a lui che si tratti di una burla.
Ok ok ok… ma che stai dicendo? Ve lo state chiedendo vero? Semplicemente sto lavorando con le rêverie e loro mi riportano davanti agli occhi, come fosse un viaggio nel tempo, quelle volte… quei ricordi imbarazzanti che spererei di eliminare dalla mia mente.
Niente di trascendentale, banali momenti di vita vissuta in cui ho detto, fatto, pensato qualcosa di goffo, fuori luogo, qualcosa di imbarazzante, qualcosa che dava una spinta alla fune su cui, in modo funambolico, il personaggio che porto in giro vacilla.
Vi torna alla mente qualcuno di quei momenti? Quella frase detta a quella ragazza nel momento sbagliato, quel sorriso fatto fuori tempo, quella volta in cui… Insomma fate voi, ma soprattutto… cosa fate quando vi tornano alla mente quei momenti imbarazzanti?
Io, ve lo confesso, cerco di distrarmi in ogni modo, divento rosso in volto anche se sono l’unico e vederlo e dico qualche parola ad alta voce, al vento, ad un volume medio, come se stessi parlando con quel me che vacilla e gli dicessi che è solo un povero cristo. E a volte mi capita di farlo anche mentre c’è qualcuno. A quel punto per scacciare il ricordo di un momento imbarazzante ne genero uno del tutto nuovo, quello in cui parlo da solo ad alta voce verso il vento. O magari fischio, o sgranchisco le corde vocali… che vergogna.
Ma il punto qui è che a volte capita in terapia. Capita di dire qualcosa da non dire, o da dire in altro momento, oppure capita di non dire qualcosa o non capire, intuire, oppure capita di dimenticare qualcosa, un nome, un appuntamento. Insomma capita di vacillare, di non saper che pesci pigliare o di pigliare quelli sbagliati, magari leggendo un sogno… capita. Capita di sbagliare.
E cosa fare quando si sbaglia? Si potrebbe mettere quell’evento tra quelli da censurare con qualche parola al vento, con voce sommessamente tenorile?
Sapete…? Vi rivelo una cosa, nessuno dei miei goffi sbagli in terapia è entrato in quell’elenco e sapete perché? Semplice perché gli sbagli del terapeuta, se lì mettiamo in luce allora diventano terapia. Se il terapeuta vacilla allora i pazienti non si sentono più soli nel loro vacillare.
È un po’ come la storia di Edipo e la Sfinge. Ve la ricordate? Quella dell’indovinello della Sfinge, quello che se Edipo avesse sbagliato sarebbe precipitato dalla rupe e che se, all’opposto, ch’avesse azzeccato, allora sarebbe stata lei, la sfinge, a rimetterci le penne, o meglio, la criniera. Ed Edipo ci azzecca! La risposta corretta la da! “È l’uomo!” le dice “… quell’essere che prima cammina a quattro zampe, poi a due e infine a tre… è l’Uomo”. E la Sfinge perisce.
Ecco quando si lavora come terapeuti si poggia spesso sulla ragionevole supportività, sulla razionale analiticità ma anche sull’Intuizione. E, anche se in molti non lo ammettiamo, l’intuizione forse è strumento principale. Allora siamo un po’ come la sfinge, intuiamo, facciamo indovinelli, domande, vediamo immagini, sogni, complessi, e ci parliamo proteggendole quelle immagini.
Eppure eppure… capita, a volte, e anche più spesso di “a volte”, che non ci capiamo nulla, o che diciamo qualcosa di poco sensato, o che il paziente ci ricorda che…
“Doc ma non aveva detto il contrario il 23 Aprile scorso?”
E tu ti ritrovi a chiederti se porre quell’evento tra quelli imbarazzanti. Poi ci pensi un attimo e pensi a lei, alla Sfinge, e ti lasci cadere giù dalla rupe. Ammetti l’errore, confessi l’emozione scomoda, magari con tatto, ma lo fai. Riveli il tuo disorientamento e a quel punto il paziente inizia a capire. Capisce che non è solo nel cercare di trovare un modo di convivere con se stesso, con le sue ombre, le sue paure, i suoi difetti e i suoi talenti (Che poi sono la stessa cosa).
Capisce che anche tu, lui, lei, l’analista sta in quella barca, su quello stesso filo. Capisce che siete in due, e tu capisci che siete in due. Un bravo terapeuta, ed io lo sono, sa che il proprio capitolare è il momento più alto della terapia, quello in cui il paziente ha la sua epifania. Cresce, si mette sulle sue gambe, magari tretteca un po’ (“Tretteca” significa “vacilla” in dialetto reatino) ma alla fine si tira su, ti guarda, tu lo guardi e vi svelate il trucco con uno sguardo.
Quello stesso sguardo con cui mi guardo quando, durante le rêverie, mi tornano alla mente i miei momenti imbarazzanti.
Ci pensate, un cardiologo fa male un’operazione e questo sarebbe un pregio? Mbè in medicina non saprei, anche se mi piacerebbe che la medicina ammettesse i suoi sbagli, ma, almeno per ora, almeno la psicoterapia, quella fatta bene, ci pensa lei a smettere di fare la sfinge, a precipitarsi, ad ammettere i suoi sbagli perché lì, nell’errore, nell’errare, nell’essere erranti, c’è un po’ di pace.
Buona terapia
Luca Urbano Blasetti