06/09/2025
Dieci anni fa ho compiuto 40 anni.
E la mia vita non era per niente quella che volevo.
Soffiando sulle candeline di quella meravigliosa torta, la mia mente espresse un desiderio, col tono e lo stile di Gomorra: “mo c ripigliamm tutt chell ch'è o nuost”.
Volevo riprendermi la vita.
Riprendere me stessa.
Rivolevo la sfacciataggine e la ca****ma di quando ero bambina, l’irriverenza, la libertà.
Lo sguardo in avanti, la testa alta, il sorriso aperto, la determinazione.
Quando li avevo persi?
Dove?
La verità è che mi ero spezzata. Mi sentivo rotta.
Niente di traumatico, non sempre ci si rompe all’improvviso.
Ci si può spezzare goccia a goccia.
Possono essere i piccoli eventi, a Incidere un solco dentro di te.
lo sguardo schifato di un tuo compagno di classe, le prese in giro.
Sentirti esclusa dal gruppo dei pari perché non sei abbastanza grande, non sei abbastanza fashion, non sei abbastanza liscia, griffata, maggiorata, timorata, non vieni neanche in chiesa!
Non sei dei nostri!
Eventi quotidiani , che spezzano lo spirito: il ragazzo che ti piace che bacia la tua amica, la festa in cui nessuno vuole ballare con te, la tua professoressa che ti sente leggere dando intonazione alla storia e ti dice di leggere ‘normalmente’…si chiama divulgazione e a 12 anni vorresti già farla ma è solo nella tua testa, ti vedi a raccontare le storie su un palco, ti senti destinata a grandi cose, ispirata, ma è solo nella tua testa, nessuno ti nota, quindi evidentemente non sei destinata proprio a niente, stupida che sei.
Ritorni al tuo posto , ma queste cose ti fanno diventare cupa, rompono il nerbo del tuo carattere,
il ragazzo che ti dice ‘idem’ anziché ti amo, l’amica che si dimentica di pranzare con te, l’assenza della famiglia nei momenti in cui sei disperata, perfino quando chiedi, tu, che non chiedi mai.
Nessun evento epocale.
Mi hanno frantumato il cuore le mille incuranze, negligenze, sciatterie, le cose belle erano solo dentro la mia testa, sognavo un destino che magari prima o poi si sarebbe attuato con l’aiuto di qualcuno, ma non arrivava nessuno a salvarmi, e Baby restava sempre in un angolo.
Poi si è ammalato mio padre.
Il tempo da lì è andato a doppia velocità, come aver schiacciato x2, undici mesi in fast forward per fare di un uomo vigoroso l’ombra di se stesso, trasformare una vita attiva in flebo, puzza di ospedale, pappette, spostare gli scacchi e i libri dalla scrivania per far posto alle scatole di toradol, alle siringhe, alla morfina.
Undici mesi, e poi crepare.
Ed è lì che sono tornata.
Grazie alla mia rabbia.
All’inizio sorda, lontana, il ronzio di una cascata che ancora non vedi, devi camminare più avanti per raggiungerla ma sai che c’è, la senti, l’aria si fa più fredda e umida mentre ti avvicini, cambia l’atmosfera, ne presagisci la potenza distruttiva.
Poi sempre più rombante, inesorabile, scrosciante.
E lì ho capito.
Che a spezzarmi non erano stati tutti quegli eventi in realtà, ma la visione di me stessa che non li affrontavo.
Guardarmi dall’alto, come nei racconti delle sale operatorie, mentre non reagisco, mentre sono passiva.
Guardarmi stare zitta, io!
Vedermi non dire “ma va******lo, alla vostra festa di m***a non ci voglio venire”.
Vedermi non dire “mah, guarda, uno che risponde idem a un ti amo mi fa solo tristezza, è un senzapalle anaffettivo”, osservarmi non rassicurare me stessa sul fatto che la prof è un’ignorante che non ha capito niente, osservarmi non sb****re la porta in faccia a chi si è dimenticato di me, a chi è arrivato in ritardo a qualcosa a cui tenevo, a chi ha risposto “non posso” quando ho detto:”ti prego, stai con me”.
Guardare me stessa mentre incasso, mentre non ho il coraggio, mentre mi adatto a conversazioni che non mi piacciono, interazioni che non mi piacciono, lavori che non mi piacciono, a una vita che non mi piace, mentre accetto di non essere la priorità, per le persone della mia vita di allora.
Guardarmi sorridere scialba, vedere l’occhio che si spegne progressivamente come il led del T-800, il capello che si ammoscia, vedermi non avere il coraggio di difendere me stessa, la mia persona, non avere il coraggio di stare da sola, di vivere a mio modo, un modo normale, percorribile, io coi miei libri, la scrittura, il mio brutto carattere, il mio lavoro, e ciao.
Ma il tempo della sottoneria era finito. Non avevo più tempo!
Non volevo trovarmi anche io in fast forward, su un letto di ospedale, a compatirmi per una vita non mia.
Quindi ecco i 40 anni, le candeline, Gomorra.
Il bello delle cascate, è che la forza propulsiva spazza tutto il superfluo. Restano le rocce lisce, resta il ghiaccio spesso, lucente.
Quello che è successo nei dieci anni successivi, lo sapete.
L’amore per se stesse chiama amore, arrivano gli affluenti, o forse sono io l’affluente, di qualcosa di più alto, qualcosa che ha senso.
I ricci sono tornati, l’occhio vispo anche.
Qualche volta mi faccio ancora andare bene alcune cose, ma ora tutto sommato la mia vita mi piace, mi assomiglia.
Il mio lavoro mi piace, ho un grande grande amore per il quale sono la priorità, e che se gli dico ti amo, mi risponde “anche io, tantissimo”.
Ho intorno a me per l’80% cose e persone intonate, giuste; sul 20% ci sto lavorando, sono in cammino, è facile tagliare i rami secchi, ma è solo quando trovi il coraggio di potarne anche di non secchi che la pianta prende forma, respira.
Ho perso tanto, in questi dieci anni, ma ho ritrovato ME.
Oggi compio cinquant’anni e giuro, niente Gomorra, soffiando sulle candeline. Nei miei desideri solo Natura, Amore, Salute (e qualche grande evento…che ci posso fare, continuo a sognare!)
Ora però vado a festeggiare. Con poche persone, quelle rimaste, trovate o ritrovate nella radura che si apre, dopo la cascata.
Buon compleanno a me e a voi, e grazie per essere qui,
Vi voglio bene,
Silvia