18/11/2025
"La relazione di utilità è bellezza. La violenza è povertà percettiva."
-La mente vede bellezza solo quando si pacifica al punto da cogliere la configurazione di massima utilità dell’oggetto. La violenza è l’occlusione di questa capacità sintetica.-
La bellezza non è contenuta negli oggetti, ma nella mente che osserva. È il risultato di un atto cognitivo in cui il soggetto, pacificato nelle proprie molteplici spinte interne, riesce a cogliere la relazione di utilità che lega la propria osservazione alla natura dell’oggetto. Di solito molto più ampia di cio che può essere colto con un solo semplice sguardo. L’oggetto, in sé, non è mai un blocco definito: è un processo, un movimento universale che attraversa stati continui. La mente, incapace di contenere simultaneamente il flusso intero, deve operare un atto definitorio, fissando l’oggetto nella sua unità sattvika, cioè nella configurazione di massima utilità possibile per la conoscenza in quel determinato istante. Ma la natura della sua molteplice utilità e quindi della sua molteplice bellezza dipende dal ritorno dallo specifico al generale della mente. La bellezza nasce esattamente da questo incastro: dal momento in cui il soggetto e l’oggetto si dispongono nella miglior relazione funzionale.
Perché questo avvenga, è necessario un primo elemento: la pacificazione della mente. La mente umana non è unitaria di per sé: è una senzienza composita, un insieme di elementi psichici autonomi che cercano continuamente di prevalere gli uni sugli altri. Desideri, impulsi, memorie, abitudini, tensioni, identificazioni: tutte queste parti interne tentano costantemente di assumere il controllo dell’attenzione per imporre la loro lettura della realtà. Questo produce frammentazione. Ogni parte della senzienza vuole “prendere luce” all’interno della mente e farla funzionare secondo la propria logica.
La conseguenza è una percezione discontinua, instabile, incapace di scendere nei livelli sottili dei fenomeni. Quando l’attenzione salta da una parte interna all’altra, l’osservazione non rimane mai abbastanza a lungo da permettere alla realtà di mostrarsi nella sua utilità più fine. L’oggetto rimane opaco perché l’osservatore è diviso.
La pacificazione nasce quando l’intera senzienza composita viene costretta a convergere su un locus unico di osservazione. Tutte le voci interne vengono dirette verso lo stesso punto, cessano di competere e iniziano a cooperare. Per questo la maggior parte delle persone utilizza il dolore, la rabbia e la tristezza per produrre arte, perché sono veicoli di convergenza facili ma in quanto tale, per quanto apparentemente profondi, mancano della capacità di espansione che si trova a margine di una espansione volontaria che utilizza la sola quiete in osservazione per raggiungere lo scopo. Questo processo è ahimsa, non come semplice gesto morale, ma come dismissione reale della conflittualità interna, come condizione cognitiva nella quale la mente smette di identificarsi con una sola delle proprie parti e recupera la propria integrità come osservatore unico, continuo, potente nella sua opera di connessione all'interno delle bellezze della relazione con la materia.
Quando il flusso osservativo diventa continuo, la mente è in grado di attraversare la superficie grossolana dell’oggetto e percepirne la struttura sottile. È in questo attraversamento che l’oggetto rivela le sue unità sattvike, la forma in cui diventa leggibile e utilizzabile cognitivamente. L’oggetto è un processo universale, ma la mente, per conoscerlo, deve fissarlo nel punto in cui la conoscenza è possibile (vijnana). Questo atto definitorio non è una limitazione, ma una funzione: la mente seleziona la porzione attraverso cui può attivare la relazione di utilità.
In questo stesso processo, quando l’osservazione è continua, la mente accede ai propri livelli sempre più profondi. Le percezioni presenti si connettono alle memorie sedimentate nel karmashaya, illuminate dal modo in cui l’attenzione stabile permette ai contenuti interiori di emergere nella forma esatta in cui possono essere compresi. La coscienza si espande in maniera direttamente proporzionale alla concentrazione. Ogni percezione intensa aggancia una memoria, e ogni memoria illuminata genera significato, connessione e densità. Il soggetto comprende l’oggetto e, attraverso questo, comprende se stesso. È questo doppio movimento, tutto interno ad ahimsa, a rendere l’osservazione un atto totale: pacifica la mente e rivela l’oggetto, mentre simultaneamente ricostruisce la significazione interiore.
La bellezza nasce da questa duplice convergenza: quando la mente è unificata e l’oggetto è visto nella sua utilità più sottile. L’arte è l’espressione più chiara di questo processo. L’artista è colui che riesce a mantenere la continuità dell’osservazione e a cogliere la relazione di utilità che sfugge alla mente frammentata dell’uomo comune. L’arte non è invenzione: è disvelamento. L’artista vede ciò che è lì ma nascosto perché l’uomo comune, frammentato, non lo può raggiungere. L’artista è un altruista: utilizza tutto lo spettro delle emozioni e, attraverso compassione, rende visibile ciò che a sguardi ordinari è distante. L'unico accorgimento che deve operare è quello di portare attenzione al veicolo che lo porta a sintetizzare, a specificare, a creare affinché quella stessa emozione non lo porti in distruzione frammentandolo. L'arte come la vita può essere lasciata scorrere nel dominio dell'indulgenza al ricordo del piacere oppure verso una chiarezza intellettiva che mi allinei al piacere di ciò che l'esistenza mi sta provvendendo affinché la distorsione cognitiva che me lo preclude non mi faccia avvertire piacere e senso continuo.
L'arte non mostra ciò che non esiste: mostra ciò che la pacificazione interiore gli permette di vedere.
Da questa capacità nasce la forza evocativa dell’arte: essa non mostra un oggetto, ma il punto esatto in cui l’oggetto diventa utile alla mente. Mostra l’unità sattvika che la mente comune, distratta e divisa, non riesce a cogliere. Mostra come ogni cosa contenga già bellezza, purché la mente sia capace di percepirla.
L’opposto di tutto questo è himsa: violenza.
La violenza non è un processo psicologico né una reazione evolutiva: è un atto occlusivo. È l’interruzione brutale della capacità sintetica della mente. È ciò che accade quando l’attenzione perde la continuità e la mente si identifica con una singola porzione di sé, cadendo in asmita.
Quando la mente è identificata, l’oggetto non rivela nulla: diventa immediatamente interferenza, opposizione e possibile ostacolo suscitando invidia, volontà di rimozione, annichilimento, distruzione e vendetta. In himsa non esiste profondità perché non esiste attraversamento; non esiste utilità perché non esiste continuità osservativa; non esiste bellezza perché l’unità sattvika non può essere vista. Himsa è povertà percettiva: l’occhio non penetra l’oggetto, lo rimbalza.
Da qui nasce amaitri, non come generica ostilità, ma come preclusione di maitri, la condizione in cui la mente è amica di tutto, aperta alla relazione, capace di vedere ogni diversità come possibilità e non come opposizione. In amaitri la mente non collabora con la realtà: la respinge. Non vede nella differenza una soglia di bellezza, ma un limite. Non percepisce l’altro come rivelazione, ma come disturbo.
La violenza è quindi la totale incapacità di compiere il gesto artistico della sintesi percettiva.
È il blocco della mente che non converge.
È l’impossibilità di cogliere la bellezza non perché non ci sia, ma perché non si riesce più a percepire la sua relazione di utilità.
La bellezza è in ogni cosa.
Ma può essere vista solo quando l’osservatore è pacificato.
La violenza è ciò che accade quando questa possibilità è occlusa.