06/05/2025
Spesso ci limitiamo a considerare una persona dipendente soltanto come una persona che sceglie intenzionalmente di continuare a farsi del male da sola, non curandosi dell’effetto che tali comportamenti possono avere sugli altri.
Quando questo accade, ci predisponiamo a nostra insaputa a smettere di empatizzare con l’altro, a cui attribuiamo tutta la colpa per la propria condizione di disagio.
Sfortunatamente, chi si occupa di dipendenze sa che molte persone iniziano a utilizzare sostanze psicoattive in giovane età per tenere distanti da sé disagi psicologici ed emotivi vissuti in famiglia, sviluppando nel tempo forme di dipendenza da cui è difficile uscire.
Riconoscere dunque come all’origine di una dipendenza possano esserci esperienze traumatiche occorse nell’infanzia o nell’adolescenza può aiutarci a smettere di assumere un atteggiamento critico e giudicante, per aprirci verso un ascolto più empatico e accogliente.
Il trauma, infatti, si fa grande nel silenzio e nell’indifferenza della comunità, perché è nella solitudine che perpetua uno stato di fragilità e impotenza, spesso gestito tramite l’uso di sostanze.
Al contrario, il senso di vicinanza e di colleganza con gli altri può attivare nella persona dipendente quelle risorse che da soli si fa fatica a richiamare, facilitando in tal modo un parziale distacco dalla sostanza verso cui si è sviluppata una dipendenza.
In pratica, se il trauma separa e frammenta la persona, la relazione unisce e ripara dall’interno.
La ragione è semplice: così come i mammiferi, anche gli essi umani sono animali sociali, che riescono in gruppo là dove individualmente fallirebbero.
L’adattamento al nostro ambiente, in pratica, è stato possibile (e in parte lo è tuttora) quando agiamo come collettività, piuttosto che come individualità singole e isolate tra loro.
Non fatevi i rettili, dunque.
Non vi si addice.
Siate mammiferi.
Chiedete aiuto.
Come gruppo MDD, noi siamo qui per questo.