18/06/2025
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Era il 2024 quando il governo annunciava a gran voce il decreto legge per abbattere le liste d’attesa, uno dei mali cronici del nostro Servizio sanitario nazionale. A distanza di un anno, però, le promesse restano intrappolate tra decreti attuativi incompiuti, ritardi burocratici e tensioni istituzionali. Nel frattempo, i numeri parlano chiaro: quasi 6 milioni di italiani hanno dovuto rinunciare ad almeno una prestazione sanitaria, e nel 6,8% dei casi la colpa è proprio delle attese troppo lunghe. "Abbiamo tracciato un confine netto tra realtà e propaganda", dichiara senza giri di parole Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che ha condotto un’analisi indipendente sull’attuazione del decreto. E la realtà, a leggere i dati, è impietosa.
Dei sei decreti attuativi previsti, solo tre sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale. E tutti con ritardi significativi. Gli altri tre? Uno è scaduto da oltre nove mesi, mentre per gli altri due non è nemmeno prevista una scadenza. Il cuore tecnologico della riforma, la Piattaforma nazionale delle liste d’attesa, doveva diventare operativa a febbraio 2025. In realtà, il cruscotto con gli indicatori è stato mostrato solo il 22 maggio, con dati parziali e provenienti da appena tre Regioni.
Ma cosa significa, in concreto, il fallimento del decreto? Che un numero crescente di cittadini smette di curarsi. Secondo l’Istat, nel 2024 il 9,9% della popolazione ha rinunciato ad almeno una visita specialistica o esame diagnostico necessario. Nel 6,8% dei casi a causa delle lunghe liste d’attesa, un dato aumentato del 51% rispetto al 2023. Anche le difficoltà economiche pesano: il 5,3% non si è curato per mancanza di soldi. "Il problema oggi non è solo il portafoglio, ma la capacità del sistema di rispondere ai bisogni in tempi utili", spiega il presidente di Gimbe. Il paradosso è che chi non riesce a prenotare nel pubblico spesso finisce per rinunciare anche al privato, perché troppo costoso. Il risultato? Una sanità a doppia velocità, dove i più fragili restano esclusi.
L’articolo di Carlo Buonamico sul sito de L’Espresso