30/08/2025
Quanto Amore e quanta profondità in queste riflessioni....
Sto per scrivere qualcosa di doloroso. E di molto personale. Dedico la vita ai figli altrui. A volte mi chiedo perché. Loro mi chiamano: “Papà,” anche se non sono miei. Li amo come se lo fossero. La loro è una tragedia, il mio un grande privilegio.
Sembra tutto facile, da lontano. Trasferirsi in Kenya. Aprire una Scuola. Gestire una Scuola. Incontrare colleghi e studenti. Intessere rapporti umani con quegli studenti. Studenti che, in molti casi, non hanno figure paterne nelle loro vite. Studenti che si affezionano. Studenti ai quali ti affezioni. Perché anche tu, sotto sotto, hai dei vuoti. E una famiglia artificiale a volte può sostituirne una di sangue. E colmare la solitudine. Ma la vita non è Oliver Twist.
Dietro gli abbracci, i sorrisi e l’affetto, c’è un mare di lavoro e di dubbi e di errori. Ho 32 anni. I miei ragazzi sono per la maggioranza adolescenti. Non lo sono sempre stati. Da monelli prepuberi li vedo attraversare scatti di crescita, cambiare voce, iniziare a curarsi del proprio aspetto, attraversare sbalzi d’umore e cambiare il modo in cui esprimono l’affetto di continuo. Trascorro le giornate in bilico tra la meraviglia dell’essere umano che evolve e lo struggimento dell’innocenza che sbiadisce. Non sto dicendo nulla di nuovo: è l’esperienza di ogni genitore.
Unica. Splendida. Terrificante.
E, come ogni genitore, devo fare i conti con la disciplina, l’occasionale mancanza di rispetto, le mezze verità, le ribellioni, le sfide, le occhiate che paiono dire: “Non sei il mio vero papà.”
Ma ciò che è ancor più complesso è scegliere le mie, di risposte. Fare i conti con i miei sbagli. Chiedere scusa quando riesco a riconoscerli. E avere il coraggio di amare anche il rifiuto.
Abbiamo discusso, di recente. Lui mi ha ferito, più per leggerezza che per reale intenzione. Io ci sono rimasto male. Gliel’ho detto. Lui ha finto impassibilità per ore. E poi, prima di andare a dormire, mi è venuto a cercare con un pretesto. Si è scusato. Mi ha abbracciato. Ha pianto. Ho dovuto impormi il coraggio di permettergli di rompere l’abbraccio per primo, sapendo come lo avrebbe fatto. Così è stato: si è ritratto di colpo. Si è asciugato le lacrime. È andato a dormire.
Un altro giorno stavamo chiacchierando nel mio ufficio. Io stavo lavorando al telefono e lo ascoltavo per metà. Primo errore. Lui mi ha chiesto cosa stessi facendo. E io, stanco, distratto, ho sospirato e ho detto: “Roba inutile.” Gelo. Stavo parlando della raccolta fondi per il suo futuro. Secondo errore, grave. Ho messo da parte il cellulare, mi sono scusato e mi sono dedicato a lui, per quei 10 minuti almeno. Coloro che ami meritano la tua attenzione ininterrotta.
Non sono suo padre. Non è figlio mio. Ma la vita ci ha messi l’uno sulla strada dell’altro perché ci completassimo: lui aveva bisogno di qualcuno che gli indicasse la via, e io di qualcuno a cui donare questo amore potente, straboccante, quasi angoscioso che porto dentro da sempre.
Mi chiedo perché l’esistenza mi abbia affidato la missione di curarmi del sangue altrui. Mi chiedo cosa mi stia perdendo a non generarne di mio. Mi chiedo quanto sia giusto occupare un posto così importante nella vita di persone che, con me, hanno così poco in comune.
Mi rispondo citando un proverbio africano, che recita: “Occorre un intero villaggio per crescere un bambino.” Ecco, io cerco di essere il villaggio. E loro sono i miei bambini.