Dott.ssa Elettra Paolini - Psicologia Alimentare

Dott.ssa Elettra Paolini - Psicologia Alimentare Comprendere, affrontare e gestire l'obesità, grazie alla psicologia alimentare.

Aiuto le persone con obesità e sovrappeso a vivere serenamente il loro rapporto col peso e col cibo

Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale 🤭😉Lo testimonia il fatto che alcuni di voi mi abbiano già scritt...
06/11/2025

Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale 🤭😉
Lo testimonia il fatto che alcuni di voi mi abbiano già scritto per sapere quale dei tre libri sia meglio acquistare in base ad alcune esigenze ben precise.
Ho pensato allora di fare una mini-guida, utile a tutti, in cui sintetizzo le caratteristiche di ciascun libro così che possiate orientarvi meglio nell'acquisto (vi ricordo che sono tutti reperibili su Amazon).
📘LA VITA OLTRE IL PESO è il mio libro più concreto e trasformativo. Ha un focus diretto sulla psicologia alimentare e insegna come passare da un'alimentazione regolata dall'esterno a un'alimentazione centrata sui propri bisogni.
👉 è per te se ti senti intrappolato nel circolo "restrizione-perdita di controllo";
📕L'INGANNO DI VENERE qui ho voluto esplorare il tema dell'immagine corporea: quel dialogo silenzioso e continuo che abbiamo col nostro aspetto. La sua unicità è quella di affrontare questo delicato tema dal punto di vista delle persone con obesità, offrendo spunti di lavoro concreti per favorire l'accettazione di sé;
👉 È per te se senti di non vederti mai abbastanza e vuoi capire da dove nasce questa lotta con lo specchio.
📗LA FAME NEL CUORE è il più intimo e profondo. Affronta la fame emotiva, il vuoto e il dolore che si trasformano in bisogno di abbuffarsi, attraverso le storia di donne che sono riuscite a cambiare il loro rapporto con il cibo. Ribalta il significato dell'iperalimentazione da segno di scarsa volontà a strategia di sopravvivenza.
👉 È per te se vuoi comprendere la radice affettiva del tuo rapporto col cibo

Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero ...
05/11/2025

Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.
Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero di “cibo”.
Spesso parla di sopravvivenza.
Di un corpo che, un tempo, ha dovuto trovare da solo il modo per calmarsi, per sentirsi al sicuro, per non sentire troppo.
Chi ha vissuto esperienze di trascuratezza o di trauma sa quanto possa essere difficile fidarsi delle proprie sensazioni corporee.
Il corpo diventa un luogo confuso: manda segnali, ma non si sa più come interpretarli.
E allora si cercano strategie per regolare ciò che dentro è ingestibile.
Il cibo, in questo senso, può diventare una forma di “cura di emergenza”: qualcosa che calma, che distrae, che riempie.
Un modo — l’unico possibile in certi momenti — per mettere ordine nel caos interno.
Ma col tempo, quella stessa strategia può iniziare a funzionare sempre meno, lasciando la persona intrappolata tra bisogno e controllo, fame e colpa.
Il lavoro terapeutico serve proprio a restituire un linguaggio al corpo,
a imparare di nuovo a sentire senza esserne travolti.
Il vero cambiamento non passa dal controllo del cibo, ma dalla possibilità di riconoscere e accogliere ciò che il cibo, silenziosamente, sta cercando di dire.

Van der Kolk descrive l’impulsività autolesiva come una delle conseguenze dello sviluppo in contesti in cui non c’è stat...
04/11/2025

Van der Kolk descrive l’impulsività autolesiva come una delle conseguenze dello sviluppo in contesti in cui non c’è stata una comunicazione emotiva adeguata con il caregiver.
Quando un bambino cresce senza poter contare su un adulto che lo aiuti a dare un nome e un contenimento alle proprie emozioni, impara che sentire è pericoloso.
Così, da adulto, ogni emozione intensa può diventare insopportabile — qualcosa da zittire, da scaricare, da spegnere.

In questi casi, l’impulsività non è “mancanza di volontà”, ma un tentativo disperato di autoregolazione.
Le abbuffate, allora, diventano un modo per anestetizzare ciò che non si riesce a gestire internamente: un impulso autolesivo travestito da bisogno di cibo.

Per questo, lavorare sulle abbuffate significa molto più che imparare a controllarsi: significa ricostruire il legame con il proprio mondo interno, imparando, forse per la prima volta, a restare in contatto con ciò che si sente senza doverlo distruggere.

Molte persone hanno paura della propria fame.Non della fame in sé, ma di ciò che pensano possa accadere se la ascoltano....
30/10/2025

Molte persone hanno paura della propria fame.
Non della fame in sé, ma di ciò che pensano possa accadere se la ascoltano.

Da un lato, questa paura nasce da un condizionamento culturale: la diet culture ci ha insegnato a diffidare dei segnali del corpo.
La fame è diventata sinonimo di debolezza, mancanza di controllo, fallimento.
Così impariamo a contenerla, a distrarci, a sostituirla con regole e strategie.
In questa logica, fidarsi dei propri bisogni interni sembra pericoloso, perché potrebbe portare “a esagerare”.

Ma esiste un piano più profondo, che riguarda la storia personale.
Come scrive Van der Kolk, chi ha vissuto esperienze traumatiche spesso percepisce il proprio corpo come un luogo di pericolo.
I segnali interni — fame, rabbia, piacere, bisogno — vengono allora evitati, perché troppo intensi o confusi.
Ci si disconnette, si smette di sentire, si cerca sicurezza fuori di sé.

Ed è qui che nasce il paradosso:
più ci si allontana dalla sintonizzazione interna, più si diventa dipendenti da una regolazione esterna.
Il corpo, non più percepito come guida, viene sostituito da qualcosa o qualcuno che “decida” al suo posto: una dieta, un farmaco, un controllo ossessivo, una relazione, la continua ricerca di rassicurazione.

In apparenza, si tratta di controllo.
In realtà, è perdita di contatto.

Ritrovare fiducia nella propria fame — nel corpo e nei suoi segnali — significa imparare di nuovo a sentirsi al sicuro dentro di sé.
Un passo essenziale per tornare a vivere, non solo a controllare.

Oggi voglio parlare di un tema un po' scomodo e spinoso che, praticamente sempre, entra nello spazio della terapia con l...
21/10/2025

Oggi voglio parlare di un tema un po' scomodo e spinoso che, praticamente sempre, entra nello spazio della terapia con le persone affette da obesità.
L'argomento in questione è:
“lo faccio per la salute.”
Una frase che, come un mantra che a furia di ripeterlo perde di significato, dallo spazio pubblico dei "discorsi da bar", arriva a contagiare anche lo spazio privato del colloquio psicologico, creando quell'atmosfera di finzione che fa poco bene al processo di cambiamento (se non colto a dovere).
Si, perché mettere in discussione "l'obiettivo supremo", l'obiettivo degli obiettivi (lo faccio per la salute) o anche solo pensare di farlo, può creare fratture insanabili fra terapeuta e paziente, se ciò non avviene nei modi e coi tempi dovuti.
Ma, per fortuna, la terapia psicologica non funziona come una visita dal medico. Non ci si deve per forza affidare alle frasi fatte, alle percentuali di rischio, alle buone norme. Il luogo della terapia è il luogo dove poter sfidare qualsiasi convinzione crei in noi circuiti malsani di risposta. E, più spesso di quanto si possa pensare, la bugia del "lo faccio per la salute", crea più disagio che guadagno. Ed è lì che la salute, davvero, ci rimette.
Dire di voler perdere peso per la salute è un modo socialmente ineccepibile di giustificare agli altri e a sé stessi un obiettivo che, in realtà, ha spesso ben altre leve.
È la motivazione che, per antonomasia, non si può mettere in discussione — chi oserebbe mai contraddire chi dice di farlo “per la salute”?
E così, questa spiegazione diventa uno scudo.
Serve a proteggere da domande più scomode, ma anche a proteggere sé stessi dal contatto con le vere motivazioni, più intime, più fragili, più umane.
Il punto non è smascherare o giudicare chi lo dice — anzi.
È riconoscere che, spesso, dietro il linguaggio della “salute” si nasconde una storia di insicurezze, di ferite, di mancata accettazione.
Parlare davvero di salute, allora, significa anche parlare di benessere psicologico, di ascolto del corpo, di libertà dal giudizio e dal controllo.
Perché la salute non si costruisce nel tentativo di diventare “giusti”, ma nella possibilità di sentirsi finalmente interi.

I disturbi alimentari, per "definizione", sono disturbi portati dal corpo. In essi il corpo diventa un veicolo, un modo ...
16/10/2025

I disturbi alimentari, per "definizione", sono disturbi portati dal corpo.
In essi il corpo diventa un veicolo, un modo per comunicare ciò che a parole non può essere detto. Per questo motivo, molto spesso, l'origine di questi disturbi è traumatica. Il trauma, infatti, parla attraverso il corpo e si esprime attraverso sintomi che riguardano il funzionamento corporeo, specialmente se si tratta di un trauma preverbale (avvenuto prima dello sviluppo del linguaggio).
Posto che il linguaggio dei sintomi assume un significato specifico per ciascun paziente (e che, quindi, vanno evitare generalizzazioni che rischiano di essere superficiali), gli autori hanno comunque suggerito alcune possibili relazioni fra comportamenti alimentari disfunzionali ed effetti prodotti.
📍Restrizione: ottundimento corporeo ed emotivo ed iperarousal;
📍Abbuffate: ottundimento corporeo ed emotivo e ipoarousal;
📍Bulimia: ottundimento corporeo ed emotivo e ridotta sensibilità al dolore.
È importante, assieme al paziente, sondare le ragioni e le funzioni specifiche dei sintomi da lui portati. Pensare, infatti, di estirpare semplicemente il disturbo, creerebbe solo ulteriore disagio e toglierebbe, di fatto, la funzione utile che la sintomatologia porta con sé.

L’evitamento è probabilmente una delle risposte più sottili e pervasive al trauma. Inizia come una difesa: allontanarsi ...
12/10/2025

L’evitamento è probabilmente una delle risposte più sottili e pervasive al trauma. Inizia come una difesa: allontanarsi da ciò che fa troppo male per essere tollerato.
Ma con il tempo, questa difesa tende ad allargarsi, come un’ombra che si estende su tutto.

Si evita non solo ciò che ricorda il trauma — i luoghi, le persone, i conflitti — ma anche le emozioni, le sensazioni corporee, la vitalità stessa.
Allora si cerca rifugio in piccole ossessioni quotidiane: un’attenzione minuziosa alle cose da fare, il bisogno di tenere tutto sotto controllo, il parlare incessantemente, il ridere per non sentire.
A volte, ci si fissa persino su emozioni “più accettabili” come la vergogna o la colpa, perché sono meno minacciose di altre — come la rabbia, la paura o il desiderio.

Ma queste difese, nate per proteggerci, finiscono per restringere il campo di coscienza e quindi la possibilità di sentirci pienamente vivi.
Tutto ciò che prima ci rendeva vivi, viene a poco, a poco tagliato fuori.
Anche nella relazione col cibo, può accadere qualcosa di simile: l’attenzione ossessiva all’alimentazione o al corpo diventa un modo per non sentire altro — il dolore, la solitudine, il bisogno. Persino la vergogna, ormai così socialmente accettata, diventa un modo di occupare la mente in modo alternativo rispetto a una vera presa di coscienza.

Ritrovare sé stessi, allora, significa riaprire lo spazio della consapevolezza, con delicatezza e tempo.
Non per forzare il contatto con ciò che fa male, ma per imparare, passo dopo passo, a restare presenti anche quando sentire fa paura.

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