Dott.ssa Elettra Paolini - Psicologia Alimentare

Dott.ssa Elettra Paolini - Psicologia Alimentare Comprendere, affrontare e gestire l'obesità, grazie alla psicologia alimentare.

Aiuto le persone con obesità e sovrappeso a vivere serenamente il loro rapporto col peso e col cibo

È del tutto normale che una persona che si affaccia alla terapia per risolvere i suoi sintomi alimentari, si aspetti che...
18/12/2025

È del tutto normale che una persona che si affaccia alla terapia per risolvere i suoi sintomi alimentari, si aspetti che certi suoi comportamenti vengano in qualche modo "eliminati", che la bramosia alimentare svanisca, che il rapporto col cibo diventi definitivamente "sano".
Tuttavia non sempre questi sono obiettivi realmente terapeutici.
Possono non esserlo in assoluto per alcune persone e possono non esserlo per una data persona in un dato momento.
A volte, quei sintomi, sono semplicemente un male minore o, meglio, il modo migliore che la persona ha trovato per funzionare. E sarebbe inopportuno e disequilibrante estirpare quei comportamenti.
In questi casi, obiettivi plausibili e auspicabili possono essere che il rapporto cibo diventi: meno violento, meno segreto, meno carico di vergogna, meno esclusivo. E questo è già un enorme cambiamento.
RIDURRE IL DANNO, NON SOSTITUIRE IL BISOGNO, quindi.
Togliere la guerra interna, togliere il giudizio, eliminare l'idea che "non dovrei averne bisogno".
In questi casi il cibo resta ma senza vergogna aggiunta.

Molte pazienti sono arrivate da me su consiglio di nutrizionisti che "si sono arresi" con loro. Un evento che, di per sé...
17/12/2025

Molte pazienti sono arrivate da me su consiglio di nutrizionisti che "si sono arresi" con loro. Un evento che, di per sé, può essere devastante per coloro che già sono pervasi dalla vergogna e dal senso di colpa o dalla convinzione di essere guasti o pazzi.
Questi nutrizionisti, io credo, si sono probabilmente trovati di fronte a problemi alimentari non affrontabili da un punto di vista esclusivamente nutrizionale. Sono cose che succedono spesso...ma comunicarlo nel modo adeguato non è appannaggio di tutti.
Spesso, i professionisti più aggiornati e attenti, cercano di supportare i pazienti cercando di tenere in considerazione gli aspetti emotivi dell'alimentazione. Il che si traduce, nella maggior parte dei casi (ma non voglio generalizzare), nel tenere conto dei gusti alimentari del paziente o delle sue voglie o evitando di proporre diete troppo restrittive. Ma questo, da un punto di vista terapeutico, è acqua fresca.
Non solo non serve praticamente a nulla ma insinua nel paziente l'idea che, se nemmeno con questi "preziosi accorgimenti" riesce a farcela, allora è davvero senza speranza. Un caso irrisolvibile, una mela marcia, un buono a nulla e così via...
Fondamentalmente, in questi casi, si cela un grosso fraintendimento rispetto al concetto di fame emotiva e di bisogni emotivi che il cibo ha il compito di colmare. Il che non può essere risolto semplicemente dando un contentino alimentare al paziente. Mangiare fino a stordirsi, per chi soffre di disfunzioni alimentari, può rappresentare l'unico, efficace modo per garantirsi sicurezza fisica ed emotiva. Il che va bene oltre le voglie o i cibi trigger. Si tratta di un'azione di pura sopravvivenza attraverso la fuga. Da cosa si sopravvive? Capirlo è compito dello psicologo/psicoterapeuta che, assieme al paziente, indagherà questi aspetti nei tempi e coi modi adeguati.

Scrive Van der Kolk: "disconoscere alcune parti del proprio sé e identificarsi eccessivamente con altre non favorisce l'...
16/12/2025

Scrive Van der Kolk: "disconoscere alcune parti del proprio sé e identificarsi eccessivamente con altre non favorisce l'integrazione e il raggiungimento di un senso di completezza".
Queste parole mi fanno ve**re in mente numerose pazienti che, in merito ai propri episodi alimentari disfunzionali, dicono: "dottoressa, quella non sono io", prendendo le distanze da quella parte di loro che appare così superficialmente indisciplinata e indomabile.
Nella mia esperienza, coloro che vivono questo forte scollamento fra parti di sé, si sforzano di bandire del tutto dalla propria personalità, la parte più scomoda, quella che, a detta loro, non le rappresenta. E così facendo pagano un prezzo altissimo: non solo la parte rinnegata non sparisce ma, assieme a quella parte che cercano di sopprimere, perdono una ricchezza inestimabile, quella che la parte in questione potrebbe dare loro.
Più ci si sforza di accantonare la parte considerata "non-me", più la si spinge a emergere sotto forme disfunzionali e incontrollabili. Il fatto stesso che molte persone descrivano le loro parti "indisciplinate" con appellativi poco lusinghieri, ostacola il processo di integrazione e rende le due parti sempre più nettamente separate. Come due facce della stessa medaglia che non possono mai essere presenti contemporaneamente.
Finché la persona non imparerá che anche la parte che si abbuffa è una fondamentale parte del sé, i suoi comportamenti non faranno altro che rinforzare la scissione e generare quello spaccamento interiore che verrà vissuto come intollerabile ambiguità.

La chirurgia estetica come ostacolo alla vera accettazione di sé.Viviamo in un’epoca in cui il ricorso a interventi e ri...
15/12/2025

La chirurgia estetica come ostacolo alla vera accettazione di sé.

Viviamo in un’epoca in cui il ricorso a interventi e ritocchi estetici è diventato normale, quasi ovvio.
Si parla di “cura di sé”, di empowerment, di libertà individuale ma, molto spesso, ciò che si cela dietro alla banalizzazione di queste modifiche corporee è una radicata non accettazione di sé che non può certo trovare rimedio nelle punturine.
Questa normalizzazione ha un effetto collaterale importante:
rende sempre più difficile distinguere tra un desiderio consapevole e una sofferenza profonda legata all’immagine corporea.
Quando la chirurgia estetica è ovunque, quando viene proposta come soluzione rapida e accessibile, può diventare una risposta socialmente legittimata a un disagio che avrebbe bisogno di essere ascoltato, non corretto.
Ci sono persone che non cercano un cambiamento estetico.
Cercano sollievo.
Cercano di smettere di sentire il proprio corpo come qualcosa di sbagliato, vergognoso, inaccettabile.

In questi casi, l’intervento non aiuta ad accettarsi.
Aiuta, piuttosto, a non guardare ciò che sta sotto.
E il rischio è che la sofferenza venga mascherata, non risolta.
La cultura che promette perfezione e controllo del corpo finisce così per alimentare il rifiuto di sé, soprattutto in chi ha già una relazione fragile o dolorosa con la propria immagine.

Non si tratta di demonizzare la chirurgia estetica.
Si tratta di chiederci quando diventa una scelta libera e quando invece diventa una difesa, una fuga, un tentativo di curare con il bisturi ciò che nasce nella mente e nella storia di una persona.

Perché nessun intervento può restituire pace a chi non riesce a sentirsi abitabile nel proprio corpo.

A volte il cibo diventa una risposta a tuttoMangiare non è semplicemente un atto alimentare.È una risposta.Una scorciato...
19/11/2025

A volte il cibo diventa una risposta a tutto

Mangiare non è semplicemente un atto alimentare.
È una risposta.
Una scorciatoia emotiva.
Un modo per calmarsi, distrarsi, riempire, rimandare, consolarsi, proteggersi, spegnere o sopravvivere.

Il cibo può diventare l'unico strumento per affrontare bisogni molto diversi tra loro: la stanchezza, la tensione, il vuoto, la solitudine, la vergogna, la mancanza di sostegno, la difficoltà a dire “no”, l’incapacità di chiedere aiuto.
Una sola azione per regolare stati emotivi complessi.
E, in alcuni casi — non sempre, ma più spesso di quanto immaginiamo — questo modo di usare il cibo ha radici lontane.
Ci sono bambini cresciuti con adulti incapaci di sintonizzarsi veramente con i loro bisogni.
Bambini che piangevano perché spaventati, nervosi, confusi o bisognosi di contatto… e ricevevano cibo.
Non per cattiveria, ma perché quel genitore non conosceva altri modi, o perché quello era l’unico strumento emotivo che aveva imparato a sua volta.
Così può accadere che il bambino, crescendo, impari un’associazione silenziosa e potente:
“Quando sto male, mangio. È quello che mi calma.”
Non perché il cibo fosse la risposta giusta, ma perché è stata la sola risposta disponibile.
E il corpo, quando trova qualcosa che “funziona”, tende a ripeterlo. Anche quando si è ormai adulti.
Non si tratta di colpe, né di spiegazioni totalizzanti.
Ma di comprendere che il cibo, per molte persone, è stato il primo tentativo possibile di autoregolazione, quando nessuno gli aveva insegnato altre strade.

In quest'ottica, lavorare sul rapporto con il cibo, significa proprio questo:
non togliere un gesto, ma restituire alternative, linguaggi emotivi, modi diversi di ascoltarsi.
Significa imparare, forse per la prima volta, a rispondere a sé stessi non con un’unica soluzione, ma con una gamma intera di possibilità.

James Pennebaker, professore di psicologia all'Università del Texas, un giorno disse:"ho molto rispetto della riservatez...
18/11/2025

James Pennebaker, professore di psicologia all'Università del Texas, un giorno disse:"ho molto rispetto della riservatezza, del tenere le cose per sé; ma sono convinto che le persone paghino un prezzo piuttosto alto cercando di negare l'evidenza".

Ecco...questo pensiero è un po' il fil rouge del mio terzo libro: la fame nel cuore.

Perché uno dei risvolti di questo tacere a sé stessi è quello delle abbuffate.
Non sto dicendo che per tutti il negare inneschi gli stessi meccanismi, naturalmente.
Ma le storie delle donne raccontate in questo libro, esprimono appieno questa dinamica.
Sono vite in cui la censura, la negazione, il non voler prendere atto di sentimenti sempre più repressi, hanno innescato un'alimentazione compulsiva e irrefrenabile.
Il famoso "prezzo" citato da Pennebaker.

Più si tenta di nascondere a sé stessi qualcosa, più quel qualcosa emergerà con forza attraverso linguaggi scomodi e sintomi spaventosi.

La guarigione non è mai un lampoQuando si intraprende un percorso di cura dell'obesità (che sia psicologico o di altra n...
13/11/2025

La guarigione non è mai un lampo

Quando si intraprende un percorso di cura dell'obesità (che sia psicologico o di altra natura) è importante, come pazienti, chiedersi che cosa ci si aspetta da tale percorso.
In altre parole è importante porsi una domanda: "cosa vuol dire, per me, aver superato il problema?"
Quando pensiamo alla guarigione, spesso immaginiamo un momento magico: un’illuminazione improvvisa che mette tutto a posto, che ci fa “diventare finalmente guariti”.
Ma nel caso dell’obesità — così come in molte condizioni croniche — la guarigione non coincide con la sparizione della malattia.
Ciò implica considerare a fondo gli obiettivi realisticamente raggiungibili sotto diversi punti di vista (perché, ormai lo sappiamo, l'obesità non è fatta di solo peso corporeo).
Ragionare, allora, sul proprio personale significato di "guarigione", è estremamente importante se non si vuole cadere nella trappola del vittimismo e dell'impotenza.
Occorre essere consapevoli che la vera trasformazione somiglia più al movimento di un pendolo che a un unico momento di illuminazione: piccoli passi avanti, ritorni indietro, a volte scoraggianti, a volte incoraggianti. Non esistono scorciatoie o folgorazioni improvvise, ma progressi reali e duraturi si costruiscono giorno per giorno.
Immaginare la guarigione come un percorso graduale, con alti e bassi, ci permette di stare con noi stessi in modo realistico, senza aspettative fantasiose e senza colpe per i ritorni indietro. Un cammino lento ma autentico.
E tu, da cosa ti accorgeresti di essere "guarita"?

Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale 🤭😉Lo testimonia il fatto che alcuni di voi mi abbiano già scritt...
06/11/2025

Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale 🤭😉
Lo testimonia il fatto che alcuni di voi mi abbiano già scritto per sapere quale dei tre libri sia meglio acquistare in base ad alcune esigenze ben precise.
Ho pensato allora di fare una mini-guida, utile a tutti, in cui sintetizzo le caratteristiche di ciascun libro così che possiate orientarvi meglio nell'acquisto (vi ricordo che sono tutti reperibili su Amazon).
📘LA VITA OLTRE IL PESO è il mio libro più concreto e trasformativo. Ha un focus diretto sulla psicologia alimentare e insegna come passare da un'alimentazione regolata dall'esterno a un'alimentazione centrata sui propri bisogni.
👉 è per te se ti senti intrappolato nel circolo "restrizione-perdita di controllo";
📕L'INGANNO DI VENERE qui ho voluto esplorare il tema dell'immagine corporea: quel dialogo silenzioso e continuo che abbiamo col nostro aspetto. La sua unicità è quella di affrontare questo delicato tema dal punto di vista delle persone con obesità, offrendo spunti di lavoro concreti per favorire l'accettazione di sé;
👉 È per te se senti di non vederti mai abbastanza e vuoi capire da dove nasce questa lotta con lo specchio.
📗LA FAME NEL CUORE è il più intimo e profondo. Affronta la fame emotiva, il vuoto e il dolore che si trasformano in bisogno di abbuffarsi, attraverso le storia di donne che sono riuscite a cambiare il loro rapporto con il cibo. Ribalta il significato dell'iperalimentazione da segno di scarsa volontà a strategia di sopravvivenza.
👉 È per te se vuoi comprendere la radice affettiva del tuo rapporto col cibo

Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero ...
05/11/2025

Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.
Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero di “cibo”.
Spesso parla di sopravvivenza.
Di un corpo che, un tempo, ha dovuto trovare da solo il modo per calmarsi, per sentirsi al sicuro, per non sentire troppo.
Chi ha vissuto esperienze di trascuratezza o di trauma sa quanto possa essere difficile fidarsi delle proprie sensazioni corporee.
Il corpo diventa un luogo confuso: manda segnali, ma non si sa più come interpretarli.
E allora si cercano strategie per regolare ciò che dentro è ingestibile.
Il cibo, in questo senso, può diventare una forma di “cura di emergenza”: qualcosa che calma, che distrae, che riempie.
Un modo — l’unico possibile in certi momenti — per mettere ordine nel caos interno.
Ma col tempo, quella stessa strategia può iniziare a funzionare sempre meno, lasciando la persona intrappolata tra bisogno e controllo, fame e colpa.
Il lavoro terapeutico serve proprio a restituire un linguaggio al corpo,
a imparare di nuovo a sentire senza esserne travolti.
Il vero cambiamento non passa dal controllo del cibo, ma dalla possibilità di riconoscere e accogliere ciò che il cibo, silenziosamente, sta cercando di dire.

Van der Kolk descrive l’impulsività autolesiva come una delle conseguenze dello sviluppo in contesti in cui non c’è stat...
04/11/2025

Van der Kolk descrive l’impulsività autolesiva come una delle conseguenze dello sviluppo in contesti in cui non c’è stata una comunicazione emotiva adeguata con il caregiver.
Quando un bambino cresce senza poter contare su un adulto che lo aiuti a dare un nome e un contenimento alle proprie emozioni, impara che sentire è pericoloso.
Così, da adulto, ogni emozione intensa può diventare insopportabile — qualcosa da zittire, da scaricare, da spegnere.

In questi casi, l’impulsività non è “mancanza di volontà”, ma un tentativo disperato di autoregolazione.
Le abbuffate, allora, diventano un modo per anestetizzare ciò che non si riesce a gestire internamente: un impulso autolesivo travestito da bisogno di cibo.

Per questo, lavorare sulle abbuffate significa molto più che imparare a controllarsi: significa ricostruire il legame con il proprio mondo interno, imparando, forse per la prima volta, a restare in contatto con ciò che si sente senza doverlo distruggere.

Molte persone hanno paura della propria fame.Non della fame in sé, ma di ciò che pensano possa accadere se la ascoltano....
30/10/2025

Molte persone hanno paura della propria fame.
Non della fame in sé, ma di ciò che pensano possa accadere se la ascoltano.

Da un lato, questa paura nasce da un condizionamento culturale: la diet culture ci ha insegnato a diffidare dei segnali del corpo.
La fame è diventata sinonimo di debolezza, mancanza di controllo, fallimento.
Così impariamo a contenerla, a distrarci, a sostituirla con regole e strategie.
In questa logica, fidarsi dei propri bisogni interni sembra pericoloso, perché potrebbe portare “a esagerare”.

Ma esiste un piano più profondo, che riguarda la storia personale.
Come scrive Van der Kolk, chi ha vissuto esperienze traumatiche spesso percepisce il proprio corpo come un luogo di pericolo.
I segnali interni — fame, rabbia, piacere, bisogno — vengono allora evitati, perché troppo intensi o confusi.
Ci si disconnette, si smette di sentire, si cerca sicurezza fuori di sé.

Ed è qui che nasce il paradosso:
più ci si allontana dalla sintonizzazione interna, più si diventa dipendenti da una regolazione esterna.
Il corpo, non più percepito come guida, viene sostituito da qualcosa o qualcuno che “decida” al suo posto: una dieta, un farmaco, un controllo ossessivo, una relazione, la continua ricerca di rassicurazione.

In apparenza, si tratta di controllo.
In realtà, è perdita di contatto.

Ritrovare fiducia nella propria fame — nel corpo e nei suoi segnali — significa imparare di nuovo a sentirsi al sicuro dentro di sé.
Un passo essenziale per tornare a vivere, non solo a controllare.

Oggi voglio parlare di un tema un po' scomodo e spinoso che, praticamente sempre, entra nello spazio della terapia con l...
21/10/2025

Oggi voglio parlare di un tema un po' scomodo e spinoso che, praticamente sempre, entra nello spazio della terapia con le persone affette da obesità.
L'argomento in questione è:
“lo faccio per la salute.”
Una frase che, come un mantra che a furia di ripeterlo perde di significato, dallo spazio pubblico dei "discorsi da bar", arriva a contagiare anche lo spazio privato del colloquio psicologico, creando quell'atmosfera di finzione che fa poco bene al processo di cambiamento (se non colto a dovere).
Si, perché mettere in discussione "l'obiettivo supremo", l'obiettivo degli obiettivi (lo faccio per la salute) o anche solo pensare di farlo, può creare fratture insanabili fra terapeuta e paziente, se ciò non avviene nei modi e coi tempi dovuti.
Ma, per fortuna, la terapia psicologica non funziona come una visita dal medico. Non ci si deve per forza affidare alle frasi fatte, alle percentuali di rischio, alle buone norme. Il luogo della terapia è il luogo dove poter sfidare qualsiasi convinzione crei in noi circuiti malsani di risposta. E, più spesso di quanto si possa pensare, la bugia del "lo faccio per la salute", crea più disagio che guadagno. Ed è lì che la salute, davvero, ci rimette.
Dire di voler perdere peso per la salute è un modo socialmente ineccepibile di giustificare agli altri e a sé stessi un obiettivo che, in realtà, ha spesso ben altre leve.
È la motivazione che, per antonomasia, non si può mettere in discussione — chi oserebbe mai contraddire chi dice di farlo “per la salute”?
E così, questa spiegazione diventa uno scudo.
Serve a proteggere da domande più scomode, ma anche a proteggere sé stessi dal contatto con le vere motivazioni, più intime, più fragili, più umane.
Il punto non è smascherare o giudicare chi lo dice — anzi.
È riconoscere che, spesso, dietro il linguaggio della “salute” si nasconde una storia di insicurezze, di ferite, di mancata accettazione.
Parlare davvero di salute, allora, significa anche parlare di benessere psicologico, di ascolto del corpo, di libertà dal giudizio e dal controllo.
Perché la salute non si costruisce nel tentativo di diventare “giusti”, ma nella possibilità di sentirsi finalmente interi.

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