Studio di psicologia clinica e psicoterapia psicoanalitica

Studio di psicologia clinica e psicoterapia psicoanalitica Uno spazio per riflettere

Un vero strumento per gestire un problema sempre più serio
05/11/2025

Un vero strumento per gestire un problema sempre più serio

Il bilancio da gennaio: ma solo dieci hanno aderito al percorso di recupero. L’educatrice: «Il provvedimento occasione per cambiare e non solo punizione»

02/11/2025

Nel campo di concentramento, gli diedero un numero: 119104.
Ma ciò che cercarono più di tutto di spezzare… fu proprio ciò che finì per salvare milioni di vite.

1942 Vienna.

Viktor Frankl aveva trentasette anni. Psichiatra rispettato, carriera promettente, un manoscritto quasi terminato e una moglie, Tilly, il cui sorriso era capace di riempire una stanza.

Aveva un visto per l’America. Un biglietto per la salvezza.
Ma i suoi genitori anziani non potevano seguirlo.
E così rimase.

Pochi mesi dopo, i nazisti vennero per tutti loro.
Theresienstadt. Poi Auschwitz. Poi Dachau.

Il manoscritto a cui aveva dedicato anni — cucito con cura nella fodera del cappotto —
gli fu strappato via appena arrivato.
La sua opera. Il suo scopo. Ridotti in cenere.

I suoi vestiti furono presi. I capelli rasati. Il nome cancellato.
Sulle carte d’ammissione restava solo un numero: 119104.

Ma c’è una cosa che i carcerieri non avevano capito:
puoi togliere a un uomo tutto — il nome, i beni, il futuro.
Ma ciò che sa… non glielo puoi rubare.

E Viktor Frankl sapeva qualcosa sulla mente umana.
Qualcosa che gli avrebbe salvato la vita.
E cambiato per sempre la storia della psicologia.

Nei lager, notò un pattern.
I prigionieri non morivano solo di fame, freddo o malattia.
Morivano quando perdevano il loro “perché”.

Quando un uomo smetteva di credere in qualcosa — una persona da rivedere, una promessa da mantenere, un lavoro da finire —
il suo corpo crollava in pochi giorni.
I medici avevano perfino un termine per questo: give-up-itis, la malattia dell’abbandono.

Ma chi restava ancorato a un senso —
resisteva. Anche all’indicibile.

Frankl cominciò un esperimento.
Non in un laboratorio. Ma nelle baracche.

Si avvicinava ai prigionieri sul punto di cedere e sussurrava:
“Chi ti aspetta?”
“Qual è il lavoro che ti resta da finire?”
“Cosa diresti a tuo figlio, per sopravvivere a tutto questo?”

Non poteva offrire cibo, né libertà.
Ma poteva offrire qualcosa che nemmeno i nazisti potevano confiscare:
una ragione per vedere il domani.

Uno sopravvisse pensando alla figlia.
Un altro per finire una teoria scientifica.

Frankl, invece, sopravvisse riscrivendo mentalmente il suo libro.
Pagina dopo pagina. Nella notte delle baracche.

Aprile 1945. La liberazione.

Pesava 38 chili. Le ossa sporgevano sotto la pelle.
Tilly era morta. Sua madre. Suo fratello. Tutto ciò che amava, distrutto.

Avrebbe avuto ogni motivo per arrendersi.
Ma non lo fece.

Si sedette.
E cominciò a scrivere.

Nove giorni.
Tanto gli bastò per riscrivere, solo con la memoria, il libro che i nazisti gli avevano bruciato.

Ma questa volta, dentro c’era qualcosa che mancava all’originale:
la prova.

La prova che la sua teoria non era solo filosofia. Era sopravvivenza.

La chiamò Logoterapia — la terapia del significato.
Un’idea semplice, ma rivoluzionaria:
l’essere umano può sopportare quasi tutto… se ha un perché per farlo.

“Chi ha un perché abbastanza forte, può sopportare quasi ogni come.”
(Le parole erano di Nietzsche, ma Frankl le aveva dimostrate all’inferno.)

1946 Il libro viene pubblicato.

In tedesco: Trotzdem Ja zum Leben sagen — Dire sì alla vita, nonostante tutto.
In inglese: Man’s Search for Meaning.

Gli editori inizialmente lo rifiutano.
“Troppo cupo”, dicono.
“Chi vorrebbe leggere dei campi di concentramento?”

Ma piano piano, il libro si diffonde.
Terapisti piangono leggendolo.
Prigionieri vi trovano speranza.
Persone distrutte da malattie, perdite, divorzi, fallimenti…
capiscono che anche il dolore può avere un senso.

L’impatto è immenso.

Tradotto in più di 50 lingue.
Oltre 16 milioni di copie vendute.
La Biblioteca del Congresso lo inserisce tra i 10 libri più influenti d’America.

Ma ciò che conta davvero è altro.
È chi, nella sua notte più buia, l’ha letto
e ha deciso di resistere ancora un giorno.

Perché Viktor Frankl ha dimostrato ciò che i nazisti non sono riusciti a distruggere:
puoi togliere tutto a un essere umano — la libertà, la famiglia, il futuro, la speranza —
ma resta sempre una libertà finale:
quella di scegliere il significato da dare a ciò che ci accade.

Non possiamo controllare ciò che ci succede.
Ma possiamo sempre scegliere cosa farne.

Oggi, Viktor Frankl non è più tra noi.
Ma nelle corsie degli ospedali, negli studi dei terapeuti, nelle carceri,
nei momenti silenziosi in cui qualcuno si chiede se valga la pena andare avanti —
le sue parole risuonano ancora:

“Quando non possiamo più cambiare una situazione, siamo chiamati a cambiare noi stessi.”
“Si può togliere tutto a un uomo, tranne una cosa: la libertà di scegliere il proprio atteggiamento davanti a qualsiasi circostanza.”

I nazisti gli diedero un numero.

La Storia gli ha dato l’immortalità.

Perché l’uomo che ha perso tutto…
ha insegnato al mondo che il senso è l’unica cosa che nessuno potrà mai portarci via.

Il prigioniero 119104 non si è solo salvato.

Ha trasformato la sofferenza in guarigione.

E da qualche parte, stanotte, qualcuno sul bordo del baratro leggerà le sue parole
e deciderà di restare. Ancora un giorno.

Questa non è semplice sopravvivenza.

È una vittoria sulla morte stessa.

-𝑅𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑎 𝑒𝑣𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑐𝑐𝑎𝑑𝑢𝑡𝑖, 𝑐𝑜𝑛 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑖 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑟𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑎 𝑓𝑜𝑛𝑡𝑖 𝑏𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑒 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑜𝑛𝑖𝑎𝑛𝑧𝑒 𝑜𝑟𝑎𝑙𝑖.

𝗩𝗶𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮

02/11/2025

Psicoanalisiecinema45righeepiùperunfilm
La voce di Hind Rajab (2025)
Diretto da Kaouther Ben Hania, “La voce di Hind Rajab” è un film al confine fra documentario e fiction: racconta la vicenda reale di Hind Rajab, bambina palestinese di sei anni intrappolata in un’automobile sotto il fuoco israeliano nella Striscia di Gaza, che telefona alla Mezzaluna Rossa Palestinese chiedendo aiuto. Il film utilizza la vera registrazione della sua voce, la regista ricostruisce le dinamiche del centro operativo che tenta di soccorrerla.
Il nucleo narrativo è minimalista tutto si svolge in un unico spazio (il centralino della Mezzaluna Rossa), una voce – quella di Hind – e il tempo che scorre verso l’inevitabile.
Nel film, la voce di Hind diventa il centro del racconto. La voce, dal punto di vista psicoanalitico, è spesso collegata al desiderio, al trauma, al soggetto che parla (o che non riesce a parlare). Qui la bambina è intrappolata, inerme, c'è solo la sua voce che testimonia la sua esistenza. Hind è “la voce” di un trauma che non ha potuto essere elaborato. Il silenzio che la circonda (la zona di guerra, la non-azione, l’impossibilità del soccorso) rappresenta il rimosso, l’angoscia.
La richiesta di aiuto della bambina “aiutatemi” è una invocazione. Gli operatori diventano testimoni impotenti,. Questa impotenza del soccorritore ( come non pensare anche a quella del terapeuta in alcuni casi) è metafora del soggetto che si confronta con il trauma non suo ma che lo colpisce comunque: l’operatore ascolta, tenta, ma non può completamente “essere” al posto della bambina. L’impotenza è anche dello spettatore, del sistema, della società.
La bambina, intrappolata tra i cadaveri degli adulti-parenti, chiede aiuto mentre il tempo scorre e la morte incombe. Il trauma si configura non solo come evento ma come rimanenza sonora: la voce che continua, la registrazione che si ripete nel film. La ripetizione è il modo in cui il trauma si manifesta, ciò che non può essere simbolizzato pienamente torna in forma deformata. Il film utilizza questo effetto: la voce reale come insistente richiamo, la finzione che la circonda, con lo spettatore chiamato a confrontarsi. Si crea un dispositivo traumatico anche per chi guarda.
Hind è allo stesso tempo soggetto e oggetto: soggetto che parla, oggetto di vittimizzazione. Essa è invisibile – non la vediamo in scena come bambina reale al centro della macchina assediata – ma la sua voce rende visibile l’invisibile, dicibile il non detto. Per lo spettatore, la posizione è ambivalente: siamo “noi” che ascoltiamo, ma siamo impotenti, emerge la consapevolezza che il soggetto “altro” – qui la bambina palestinese – non è solo “oggetto di racconto”, ma voce che chiede aiuto ed è anche una parte che ha risonanze emotive con gli aspetti interni di chi guarda il film e ascolta la sua voce
Tutto si svolge in uno spazio chiuso:, del fuori vediamo poco o nulla; l’azione bellica resta spesso fuori campo. Questo spazio interno è come un luogo simbolico del soggetto che ascolta/che attende. Il silenzio – delle immagini di guerra, del corpo della bambina invisibile, del soccorso che tarda – è spia di una lacuna simbolica: ciò che non può essere detto, ciò che non è intervenuto, ciò che è stato escluso dalla storia come testimonianza piena. Il silenzio e le lacune sono terreno del non-vissuto, del non-pensato, del non-digerito.
L’uso della registrazione della voce reale però propone un interrogativo etico : la voce di una bambina può essere ricostruita per il cinema?
L’uso della voce di Hind Rajab nel film solleva una questione etica profonda: è giusto rendere udibile il dolore di una bambina morta? Da un lato, far ascoltare la sua voce significa restituirle dignità e memoria, trasformando il dolore in testimonianza. È un modo per non farla tacere di nuovo, per rendere concreto ciò che spesso resta invisibile nelle guerre. Dall’altro lato, esiste il rischio di strumentalizzare la sofferenza, trasformandola in emozione da consumo o in arma ideologica e quindi di aumentare le difese degli spettatori rispetto alllla realtà del dramma
“La voce di Hind Rajab” è un’opera forte e perturbante Dal punto di vista psicoanalitico, è un viaggio nella voce del trauma, nell’impotenza del soccorso e nella presenza dell’Altro che parla. Il film ci chiede di ascoltare, di confrontarci con la nostra responsabilità (in quanto spettatori, in quanto abitanti di un mondo che assiste). Non fornisce soluzioni semplici — e probabilmente il suo valore sta proprio lì: nel lasciare la domanda, nell’aprire il vuoto e rendere visibile ciò che resterebbe altrimenti
invisibile.
Matteo De Simone psichiatra psicoanalista didatta Associazione Italiana di Psicoanalisi A.I.Psi/I.P.A, docente Asnea, socio onorario ASSIA ( Associazione siciliana per lo studio dell'infanzia e dell'adolescenza)

24/10/2025
21/10/2025

La Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica della sede di Trieste organizza
sabato 8 novembre 2025 dalle 10.00 alle 17.00 il
Seminario
Frammenti di specchio: la clinica del “vuoto”

Relatori: lo Staff del CFR Centro Formazione e Ricerca in Psicoterapia Psicoanalitica
Coordinatore: dott. Andrea Zanettovich

Sede del Seminario la Sala Auditorium “Beato don Francesco Bonifacio” Via Besenghi, 16 (Seminario Vescovile) - Trieste

Quest’anno il Gruppo di ricerca concettuale del CFR ha affrontato il tema del “vuoto”: di cosa si possa effettivamente intendere per “vuoto” in clinica psicoterapica, di quali possano essere concepite come sue caratteristiche metapsicologiche di base, di come tale fenomeno possa praticamente presentarsi nel lavoro quotidiano dello psicoterapeuta e di quali possano essere degli aspetti tecnici appropriati nell’ambito del suo trattamento.

Come di abitudine, sarà intento del Seminario coinvolgere i partecipanti nelle riflessioni comuni e procedere insieme verso auspicabili nuove acquisizioni concettuali.

Informazioni ed iscrizioni: segreteria cell. 333 3673777 - e mail cfr.canova@gmail.com

L importante é mettersi come essere umano davanti a un altro essere umano
15/10/2025

L importante é mettersi come essere umano davanti a un altro essere umano

Grazie al mio lavoro con i pazienti mi resi conto che le, idee ossessive e le allucinazioni contengono un nocciolo significativo. Nascondono una personalità, la storia di una vita, speranze e desideri. È solo colpa nostra se non riusciamo a capirne il significato. Mi fu chiaro allora per la prima volta che una psicologia generale della personalità è implicata nella psicosi, e che anche in questa si ritrovano i vecchi conflitti dell’umanità.”

“[…] presi a considerare i malati in una luce diversa, poiché avevo finalmente capito la ricchezza e l’importanza della loro vita interiore […] Spesso mi vengono chiesti chiarimenti circa il mio metodo analitico o psicoterapeutico. Non posso rispondere in modo univoco: la terapia è diversa per ogni caso. Quando un medico mi dice che segue rigorosamente questo o quel metodo, ho i miei dubbi sull’efficacia della sua terapia. E stato scritto tanto sulla resistenza che oppone il malato, da far sembrare quasi che il medico voglia tentare di imporgli qualcosa, mentre la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso […] L’importante è che io mi ponga dinanzi al paziente come un essere umano di fronte a un altro essere umano”.
Jung, Ricordi, Sogni, Riflessioni.
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13/10/2025

LA SPAZZATURA DI LACAN

Lo psicoanalista francese, Jacques Lacan ha messo al centro della propria concezione della psicoanalisi il concetto di “scarto”, di “resto” come potente e preciso riferimento rispetto all’attività dell’analista.

Nel corso del seminario VIII, dedicato al tema del “Transfert”, Lacan afferma che lo psicoanalista occupa la posizione dell’ “immondezzaio”, di colui che si occupa del “peggio”, dello “scarto” prodotto dal paziente.

L’analista sarebbe nella posizione della “pattumiera” del paziente.

È Lacan stesso ad affermare che la spazzatura sia “uno degli aspetti della dimensione umana che bisognerebbe non misconoscere”. Nella spazzatura c’è una traccia, perturbante ma precisa, di chi siamo.

Da una parte l’analista, che per operare al meglio della sua funzione occupa la posizione di oggetto causa del desiderio, si fa ricettacolo, depositario, raccoglitore del peggio che il paziente gli offre: il proprio dolore, la rabbia e l’odio, i fallimenti e il proprio disorientamento.

Dall’altra il paziente giunge in analisi nella posizione di scarto, di ultimo, di chi non riesce più a trovare la propria strada nel mondo e nella propria vita.

L’incontro con analista infatti è spesso l’ultima chance dopo una serie di tentativi falliti, di insuccessi che hanno segnato una deriva rovinosa nella vita del soggetto.

L’analista, quindi apre la porta ad un soggetto oramai divenuto scarto, ridotto a spazzatura: lo si vede bene in alcuni casi di depressione, nei quali il corpo del soggetto è letteralmente ridotto a spazzatura, maleodorante e trascurato.

Cosa si nasconde nella figura dell’analista? Cosa spinge ad occupare la posizione di chi si fa ricettacolo della spazzatura dell’altro?

Lo psicoanalista Massimo Recalcati, esplorando i “fantasmi” della figura dello psicoanalista, rintraccia una radice “masochistica”, legata all’occupare la posizione di oggetto per l’analizzante.

La posizione dell’analista è stata a lungo studiata da Lacan per estrarne gli elementi essenziali proprio a partire dalla idea che nella cura l’analista occupi la posizione di oggetto: oggetto causa di desiderio, oggetto scarto, oggetto rifiutato, oggetto di proiezione e di fantasie.

L’invito di Recalcati è di cogliere cosa nell’analista sostenga l’assunzione di una posizione così peculiare e, non senza ironia, così masochistica: è forse possibile rintracciare nella storia di chi diventa psicoanalista l’esperienza di essere stato per primo uno “scarto”?

La sfida dell’analisi è trasformare l’esperienza dello scarto, del rifiuto, in un “resto”, una nuova forma di quello che Lacan formalizza come oggetto piccolo (a): dallo scarto senza valore all’oggetto causa di desiderio, dalla spazzatura al resto che diviene catalizzatore della vita, fonte di nuova generatività.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Bruno Moroncini – “la lettera che cade. Jacques Lacan e l’uomo come scarto”;
-Massimo Recalcati – “Convertire la pulsione?”;
-Massimo Recalcati – “Il vuoto e il resto”.

12/10/2025

Una ragazzina di 14 anni arrivata in pronto soccorso intossicata da sostanze “undetectable” (le nuove droghe non ancora intercettate dagli esami di routine) e talmente grave da dover essere ricoverata in Rianimazione, in sedazione profonda, per essere disintossicata. Un’altra di 12 anni, denutrita per un grave disturbo alimentare: l’unico modo per tenerla in vita è stato ricorrere a un sondino. E una tredicenne che, dopo che i genitori le hanno vietato di uscire, ha iniziato a spaccare tutto, ed è arrivata in pronto soccorso con ferite auto-inferte. Sono solo alcuni degli esempi di quanto la salute mentale degli under 18 in Lombardia sia da allarme rosso: nei primi sette mesi del 2025, secondo i dati della Regione, i casi di adolescenti arrivati nei pronto soccorso con comportamenti autolesivi o suicidari sono stati 815. Un numero enorme, soprattutto se si considera che in tutto il 2024 i casi analoghi erano stati 947: in pronto soccorso dal 2019 a oggi l’aumento è del 94 per cento, del 121 se si considerano i ricoveri.

L'articolo completo di Alessandra Corica su Repubblica Milano

Indirizzo

Via Mazzini 28 Voghera
Voghera
27058

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 19:00
Martedì 08:00 - 19:00
Mercoledì 08:00 - 19:00
Giovedì 08:00 - 19:00
Venerdì 08:00 - 19:00
Sabato 08:00 - 13:00

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