02/11/2025
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La voce di Hind Rajab (2025)
Diretto da Kaouther Ben Hania, “La voce di Hind Rajab” è un film al confine fra documentario e fiction: racconta la vicenda reale di Hind Rajab, bambina palestinese di sei anni intrappolata in un’automobile sotto il fuoco israeliano nella Striscia di Gaza, che telefona alla Mezzaluna Rossa Palestinese chiedendo aiuto. Il film utilizza la vera registrazione della sua voce, la regista ricostruisce le dinamiche del centro operativo che tenta di soccorrerla.
Il nucleo narrativo è minimalista tutto si svolge in un unico spazio (il centralino della Mezzaluna Rossa), una voce – quella di Hind – e il tempo che scorre verso l’inevitabile.
Nel film, la voce di Hind diventa il centro del racconto. La voce, dal punto di vista psicoanalitico, è spesso collegata al desiderio, al trauma, al soggetto che parla (o che non riesce a parlare). Qui la bambina è intrappolata, inerme, c'è solo la sua voce che testimonia la sua esistenza. Hind è “la voce” di un trauma che non ha potuto essere elaborato. Il silenzio che la circonda (la zona di guerra, la non-azione, l’impossibilità del soccorso) rappresenta il rimosso, l’angoscia.
La richiesta di aiuto della bambina “aiutatemi” è una invocazione. Gli operatori diventano testimoni impotenti,. Questa impotenza del soccorritore ( come non pensare anche a quella del terapeuta in alcuni casi) è metafora del soggetto che si confronta con il trauma non suo ma che lo colpisce comunque: l’operatore ascolta, tenta, ma non può completamente “essere” al posto della bambina. L’impotenza è anche dello spettatore, del sistema, della società.
La bambina, intrappolata tra i cadaveri degli adulti-parenti, chiede aiuto mentre il tempo scorre e la morte incombe. Il trauma si configura non solo come evento ma come rimanenza sonora: la voce che continua, la registrazione che si ripete nel film. La ripetizione è il modo in cui il trauma si manifesta, ciò che non può essere simbolizzato pienamente torna in forma deformata. Il film utilizza questo effetto: la voce reale come insistente richiamo, la finzione che la circonda, con lo spettatore chiamato a confrontarsi. Si crea un dispositivo traumatico anche per chi guarda.
Hind è allo stesso tempo soggetto e oggetto: soggetto che parla, oggetto di vittimizzazione. Essa è invisibile – non la vediamo in scena come bambina reale al centro della macchina assediata – ma la sua voce rende visibile l’invisibile, dicibile il non detto. Per lo spettatore, la posizione è ambivalente: siamo “noi” che ascoltiamo, ma siamo impotenti, emerge la consapevolezza che il soggetto “altro” – qui la bambina palestinese – non è solo “oggetto di racconto”, ma voce che chiede aiuto ed è anche una parte che ha risonanze emotive con gli aspetti interni di chi guarda il film e ascolta la sua voce
Tutto si svolge in uno spazio chiuso:, del fuori vediamo poco o nulla; l’azione bellica resta spesso fuori campo. Questo spazio interno è come un luogo simbolico del soggetto che ascolta/che attende. Il silenzio – delle immagini di guerra, del corpo della bambina invisibile, del soccorso che tarda – è spia di una lacuna simbolica: ciò che non può essere detto, ciò che non è intervenuto, ciò che è stato escluso dalla storia come testimonianza piena. Il silenzio e le lacune sono terreno del non-vissuto, del non-pensato, del non-digerito.
L’uso della registrazione della voce reale però propone un interrogativo etico : la voce di una bambina può essere ricostruita per il cinema?
L’uso della voce di Hind Rajab nel film solleva una questione etica profonda: è giusto rendere udibile il dolore di una bambina morta? Da un lato, far ascoltare la sua voce significa restituirle dignità e memoria, trasformando il dolore in testimonianza. È un modo per non farla tacere di nuovo, per rendere concreto ciò che spesso resta invisibile nelle guerre. Dall’altro lato, esiste il rischio di strumentalizzare la sofferenza, trasformandola in emozione da consumo o in arma ideologica e quindi di aumentare le difese degli spettatori rispetto alllla realtà del dramma
“La voce di Hind Rajab” è un’opera forte e perturbante Dal punto di vista psicoanalitico, è un viaggio nella voce del trauma, nell’impotenza del soccorso e nella presenza dell’Altro che parla. Il film ci chiede di ascoltare, di confrontarci con la nostra responsabilità (in quanto spettatori, in quanto abitanti di un mondo che assiste). Non fornisce soluzioni semplici — e probabilmente il suo valore sta proprio lì: nel lasciare la domanda, nell’aprire il vuoto e rendere visibile ciò che resterebbe altrimenti
invisibile.
Matteo De Simone psichiatra psicoanalista didatta Associazione Italiana di Psicoanalisi A.I.Psi/I.P.A, docente Asnea, socio onorario ASSIA ( Associazione siciliana per lo studio dell'infanzia e dell'adolescenza)