18/05/2025
Miguel Benasayag ha rilasciato un'intervista per Il Corriere della Sera, pubblicata nell'inserto Economia del 12 maggio 2025. Con la sua consueta lucidità, ha riaffermato una posizione che può apparire provocatoria nel tempo dell’intelligenza artificiale trionfante: ChatGPT non pensa, ma neppure il cervello, da solo, produce pensiero.
Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino naturalizzato francese, ha attraversato la militanza politica, passando anni di prigionia sotto la dittatura militare argentina, prima di rifugiarsi in Francia, dove tuttora vive e lavora. Autore prolifico, ha fondato il collettivo Malgré Tout e pubblicato saggi fondamentali come L’epoca delle passioni tristi, L’epoca dell’intranquillità e ChatGPT non pensa (e il cervello neppure), da cui prende spunto l’intervista.
Il punto centrale è chiaro: pensare non è calcolare. Pensare è un atto incarnato, emergente, relazionale. È ciò che accade nell’attrito fra noi e il mondo, non nella concatenazione fredda di simboli. È ciò che accade quando qualcosa ci resiste, ci interpella, ci coinvolge. Da questo punto di vista, non solo la macchina non pensa, ma neppure il cervello isolato produce pensiero. Serve un soggetto vivente, situato, che abiti un mondo e che ne venga trasformato.
Benasayag ricorre a immagini efficaci: ogni popolo suona strumenti diversi secondo il paesaggio che abita. Non è una scelta culturale astratta, ma una risposta incarnata all’ambiente. Pensare nasce da lì, da quella vibrazione tra corpo e mondo. In questo senso, non tutto ciò che facciamo è pensiero: quando giochiamo a ping pong, il cervello calcola traiettorie, ma non sta pensando. Pensare è un'altra cosa: è tensione, ambivalenza, apertura.
Il rischio – ammonisce Benasayag – è quello del produzionismo: confondere la potenza di calcolo con il pensiero, la prestazione con la coscienza, il funzionamento con l’esistenza. Così facendo, finiamo per ridurre l’umano a macchina, rinunciando alla sua alterità irriducibile; e questa delega eccessiva, questa esternalizzazione sistematica delle nostre funzioni cognitive, ci rende fragili. Diveniamo giorno dopo giorno sempre più pronti, ma sempre meno presenti.
Nel solco di Platone, cita il Fedro, dove Socrate si rifiuta di scrivere sostenendo che la scrittura sia una delega che indebolisce la memoria. Oggi sappiamo che quella previsione era in parte sbagliata. La scrittura, dice Benasayag, l’abbiamo addomesticata, e in essa vive anche la poesia, che parla attraverso ciò che non dice. Ma proprio per questo, una poesia scritta da un’IA, anche se formalmente perfetta, manca di intenzionalità, e quindi di significato.
Qui in questo spazio di riflessione, nel nostro paradigma filosofico e psicologico, questa riflessione di Benasayag si armonizza perfettamente: non siamo il funzionamento, ma ciò che simbolizziamo, ciò che soffriamo, ciò che mettiamo a rischio. L’intelligenza artificiale non ha un’etica, perché non esiste nel tempo del rischio e dell’incertezza: può solo ottimizzare. Diversamente l'etica umana è una scommessa, un tentativo di senso mentre camminiamo sul filo dell’esperienza, sopra l'abisso del nichilismo.
Ecco allora l’avvertimento più profondo: non è la macchina che minaccia l’uomo, è l’uomo che, smettendo di indagare la vita, cammina verso la morte. La posta in gioco non è tecnologica, ma ontologica. La sfida non è opporsi all’IA, ma integrarla senza confondere la sua potenza con la nostra vulnerabile dolcezza e grandezza.
In un mondo che ci chiede sempre più di funzionare, Benasayag ci invita a ricordare che siamo nati per esistere. Io direi “per vivere e celebrare la vita”.
Un abbraccio a tutti,
Pierluigi Dadrim Peruffo